È stata una chiacchierata più lunga del solito, quella con DJ Rocca. È stato come aprire una porta nella stanza dei bottoni e scoprire i retroscena di vent’anni di storia dance italiana. Siamo partiti dal presente, dalla sua ultima collaborazione con Dimitri From Paris in uscita su Hell Yeah i primi di giugno, e siamo andati via via indietro, passando per Crimea X, Daniele Baldelli, Ajello, giù fino agli anni del Maffia. Ripercorrere la storia è sempre emozionante, ma la vera ebbrezza stavolta è farlo insieme a uno con amicizie eccellenti, esperienze così ampie e una visione in grado di abbracciare underground, pop e tutto quello che sta in mezzo. Inseguire l’arte può darti mille soddisfazioni, ma a volte, mentre osservi il mondo e ripensi a quel che ti ha condotto fin qui, capita anche di dover fare i conti con un pizzico di frustrazione.
Partirei proprio da “Disco Shake”, l’ultimo singolo che hai fatto con Dimitri From Paris. Mi interessa sapere cosa rappresenta la tua collaborazione continuativa con Dimitri nella tua dimensione artistica attuale.
Direi che è un traguardo vero e proprio. Magari quelli che mi conoscono dal Maffia non lo sanno, ma io in realtà sono nato con la disco – che poi ai tempi chiamavo funky – quando negli anni ottanta seguivo i vari Baldelli e Moroder. È quella la mia formazione base, e quando a metà duemila questi suoni sono tornati in auge mi ci son rifiondato subito. Ma la cosa più bella, con Dimitri, è che è stato lui a contattarmi per primo.
Dai, racconta.
Quattro o cinque anni fa, su SoundCloud. Io caricavo i miei pezzi e un bel giorno mi ritrovo a leggere dei commenti tipo “la tua musica mi piace un sacco, sono un tuo fan“. Firmato: “DFP”. Puoi immaginare la mia sorpresa quando scoprii chi fosse tale DFP. “Tu sei un mio fan? Sono io il tuo fan!“. Da lì siamo entrati in contatto, prima col remix sugli Electra 80 suggeriti da lui e poi iniziando a comporre dei pezzi insieme, singolo dopo singolo. Oggi avremmo abbastanza materiale per farci un album, tra pezzi nuovi e pezzi già editi. Sfortunatamente la Gomma ci ha scoraggiato in questo, voleva solo pezzi inediti e per noi significava minimo tre anni di lavoro, visti gli impegni di Dimitri. Ma chissà che la cosa non veda la luce lo stesso…
E in quest’ultimo singolo c’è, tra gli altri, il remix di un certo Tom Moulton…
È un amico di vecchia data di Dimitri. Ogni volta che va a New York lo va a trovare e mi racconta di questo bizzarro signore che vive in questa casa piena zeppa di gatti e che ha sempre dei tesori nascosti da far sentire, magari roba inedita di tanti anni fa. Dimitri gli aveva fatto sentire “Disco Shake” e lui si è proposto per farne un remix. Ci è voluto un po’ ma alla fine l’ha fatto. Un gran bell’orgoglio.
La tua storia recente sta mettendo in mostra tutto l’eclettismo di cui sei capace in fase di produzione. Qualche tempo fa è uscito il secondo album coi Crimea X, il progetto con Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò, in cui esce fuori il tuo lato più “da musicista”. Mi interessa sapere quali aspetti della tua esperienza fai venir fuori in un progetto sulla carta così diverso da quel che da te ci si aspetta.
L’unicità di quel progetto è tutta nei soggetti che lo compongono: io e Jukka abbiamo questa passione comune per il krautrock, ma veniamo da due mondi diversi e ci piace questo strano incrocio tra la dimensione indie e quella dance. Il modo in cui viene fuori la musica è particolare, partiamo da delle jam session in cui tiriamo fuori una marea di idee, io magari butto su il ritmo, lui ci mette dei giri di basso, a me viene l’idea di qualche synth, poi ci accorgiamo che in certi pezzi starebbe bene un certo cantato… è una fase molto sanguigna, istintiva. Successivamente mi metto in studio e inizio a raffinare quel che abbiamo registrato, lavorando sui dettagli e sulla ricerca e scambiandoci i pareri a distanza. Ma le idee vengono tutte dalle sessioni iniziali, in cui spingo Jukka a metterci più idee possibili: proprio perché mi piace la diversità che riesce ad apportare in quel progetto.
Continuiamo ad andare indietro. Delle tue collaborazioni con Baldelli abbiam parlato largamente nell’intervista di un paio di anni fa, qui ti chiedo solo: com’è mettere le mani in studio su un’idea di una leggenda come lui? Non si prova una sorta di timore reverenziale? tipo “oh, questo spunto vien da lui, è per forza strepitoso“…
Eheh, è un po’ la stessa cosa che mi succede con Dimitri, se l’idea vien da loro non la si si cambia mica! A volte può capitare che non mi ci senta a mio agio per istinto, ma mi sforzo di lavorarci su. Anche perché nel 99% dei casi da loro arrivano idee bellissime, sia chiaro. Ora con Daniele siamo in una fase differente: se prima lavoravamo sulle idee spontanee che gli venivano in mente, ora ci sembra più interessante andare a riascoltarci i suoi mixati. Magari ci capita di sentire un pezzo cosmic mixato con uno afro e da lì ci viene lo spunto per produrre qualcosa. È questo l’approccio che ci piace oggi.
“Oggi magari un ragazzino compra un computer, installa un software, fa un paio di loop e ha fatto un pezzo dance. Ma questo non è fare musica. Fare musica è saper tirare fuori qualcosa di tuo e solamente tuo. Quello invece è programmare videogame.“
Tra Baldelli e Dimitri hai tanto di che divertirti, insomma.
Tra i due c’è anche una netta differenza d’approccio. Hai presente i tempi in cui per fare un disco dance servivano un dj, un musicista e un ingegnere del suono? Ecco, Dimitri da questo punto di vista è un personaggio che fa tutto, ci mette l’idea e ci sa mettere anche le mani dentro, mentre Baldelli è un dj puro. Lui ci mette l’idea, poi io metto mani alle macchine e le cose si vanno evolvendo. Anche perché lui non ha un suo studio, per questa fase si è sempre affidato ai suoi collaboratori, come accade anche con Dionigi.
Adesso dicci la verità, tutta la verità, nient’altro che la verita sul progetto Ajello.
Ajello vien fuori insieme a Fabrizio Tavernelli, un altro dei vari amici che ho conosciuto ai tempi del Maffia (come anche Jukka, peraltro). Siamo partiti intorno a metà duemila, quando c’era l’invasione dell’electroclash e si leggevano interviste di questi famosi producer internazionali che improvvisamente sembravano amare alla follia produzioni come quelle Discotto (mi pare fossero i Booka Shade). Al che ci siam detti qualcosa tipo “ti pare che debbano insegnarci la nostra roba, da fuori?“. Ed è partito così, volevamo produrre roba più electro-oriented ma che partisse da basi italo-disco tutte nostre.
Conosco gente che hanno avuto una sorta di allergia per “Smells Like Too Cheesy“, il disco che avete pubblicato come Ajello. Forse perché viene fuori la sfacciataggine dello spirito italiano, e per molti questo significa tamarro. Io devo dire che quel disco l’ho amato molto, ci ho visto la quintessenza della storia dance italiana che non ha bisogno di cercare ispirazione all’estero e può coraggiosamente sfoggiare la propria personalità unica. E quel disco sembra una sfida, “facciamo vedere cosa viene fuori lasciando esplodere la nostra sensibilità italo, vietando severamente qualsiasi accesso anche casuale di influenze estere”. Blocchiamo le importazioni per un momento. Ricordo che quando lo recensii parlai di embargo…
Guarda, hai centrato esattamente il punto, era proprio quello che volevamo fare. Volevamo essere trash. Volevamo concentrarci su quello che all’estero amano del sound italo. Alla fine quel che vengono a cercare a casa nostra son cose come Sabrina Salerno, capisci? È il tocco fricchettone italiano, che magari per noi è una vergogna, ma che hai dei lati che per chiunque altro sono inarrivabili.
E che comunque sono unici. Non li copiamo da nessuna parte, siam proprio noi.
Esatto. E guarda, ti confesso che anch’io in certi momenti mi son sentito un po’ in difficoltà. Quello che spingeva più verso il trash era Fabrizio, io cercavo di mitigarne gli effetti. E questa combinazione di spinte contrarie ha prodotto quel disco lì.
È il tuo disco pop, diciamo.
Senza “diciamo”. Volevamo proprio fare il disco pop. Un po’ perché in fondo è l’ambizione di ogni producer, quella di arrivare al grande pubblico, e un po’ perché volevamo pensare in formato canzone, con parti cantate e strutture tipicamente pop. Abbiam provato a raggiungere un pubblico che vada oltre quello dance.
“Se vuoi fare pop, devi sentirtelo dentro. E in più devi anche essere un musicista preparato, perché il grande pop in realtà ha una complessità non indifferente.“
Fare il pezzo pop è sempre la cosa più difficile. Il pubblico questa cosa non la concepisce, il pensiero comune è “che ci vuole a fare una di queste canzoni che canticchiano tutti, è semplicissimo!“. In realtà la vera sfida è proprio quella: fare qualcosa che possa funzionare con tutti.
Hai detto una grande verità. C’è stato un periodo in cui ho provato anch’io a fare commerciale, ma per me è sempre strada una strada difficilissima. Qui a Reggio mi confronto spesso con un mio vecchio amico, si chiama Benny Benassi. E lui me lo dice sempre: “Se quella musica non ti piace, se non la senti dentro, non ti verrà mai. A me viene perché sono proprio un DJ commerciale“. Se vuoi fare pop, devi sentirtelo dentro. E in più devi anche essere un musicista preparato, perché il grande pop in realtà ha una complessità non indifferente.
Quel che dici mi ha fatto tornare in mente lo scambio di battute che avemmo con Armand Van Helden. Quando gli chiedemmo “come ti è venuto in mente di fare i Duck Sauce e Barbra Streisand?” ci ha risposto: “Se dentro senti di volerlo fare, devi andare fino in fondo. È onestà verso sé stessi“. Se ce l’hai dentro, è inevitabile.
E ne devi masticare di musica prima di essere in grado di tirare fuori quello che hai dentro, non è mica facile! Oggi magari un ragazzino compra un computer, installa un software, fa un paio di loop e ha fatto un pezzo dance. Ma questo non è fare musica. Fare musica è saper tirare fuori qualcosa di tuo e solamente tuo. Quello invece è programmare videogame.
Adesso torniamo ancora più indietro nel tempo. Non ho potuto assistere in prima persona agli anni d’oro del Maffia per ragioni puramente anagrafiche, ma come tanti altri vedo l’alone di leggenda che gira intorno a quel posto e a quel che è rappresentato negli anni ’90. Son passati vent’anni e c’è una nuova generazione che quella storia non la conosce. Ci racconti cosa avete combinato in quel posto?
È successo che eravamo un gruppo di persone volenterose e sentivamo che in Italia mancasse qualcosa. Seguivamo la musica che veniva dall’Inghilterra, sia essa la drum’n’bass ma anche gente come gli Orb, e vedevamo che in Italia quella roba non la si vedeva da nessuna parte. O meglio: c’era il Link a Bologna, è vero. Ma quel che avevamo in mente noi era qualcosa di diverso, qualcosa di meno underground, più clubby. Abbiamo trovato la location giusta e siam partiti, il primo anno abbiam fatto molto rock ma l’intenzione di fare elettronica c’è sempre stata. La svolta è stata l’anno dopo, quando io e un altro socio siam partiti per Londra, diretti verso il negozio da cui allora compravo i dischi via fax, l’Atlas Records Shop, dove lavorava il buon Pete Herbert. Quell’estate ci si è aperto un mondo, in quel negozio abbiam conosciuto Andrew Weatherall, i Chemical Brothers, i Pressure Drop, andavan tutti a comprare i dischi lì. Lì abbiam fatto i primi booking e ci siamo accorti che agli artisti faceva piacere venire in Italia ma avevano bisogno di fidarsi, evitando inconvenienti già accaduti tipo non essere pagati o finire in posti in cui la loro musica non c’entrava nulla.
Il minimo.
Al che abbiam creato la nostra agenzia di booking, la IOD, perché in Italia non esisteva un’agenzia che ti faceva un DJ Food o un DJ Krush. In questo modo stringevamo accordi coi dj e offrivamo la possibilità di suonare in altri locali in Italia, in modo anche da distribuire le spese su più serate. È anche per questo che negli anni ci siam potuti permettere di fare certi nomi. Tipo Fatboy Slim: i primi a portarlo in Italia siam stati noi.
E ancora quella serata se la ricorda, ce ne ha parlato su intervista di recente.
In quel periodo lui aveva questa serata enorme al Concorde di Brighton, si chiamava Big Beat Boutique. E aveva già la Skint, l’etichetta sulla quale ha pubblicato i suoi album di maggiore successo. L’accordo alla fine è stato semplice: abbiam preso il pacchetto completo e abbiam fatto tutti gli artisti dell’etichetta, per avere alla fine Fatboy Slim. Guarda, era davvero tutta una questione di fiducia, gli artisti inglesi volevano venire in Italia. Avevano bisogno di trovare qualcuno di cui fidarsi.
“L’arte non è andare in consolle e alzare le mani di fronte a un pubblico che ti venera senza motivo. Se cerchi l’arte, andrai su strade completamente differenti.“
E così siete diventati un club da top europeo.
Ne eravamo consapevoli, non lo nego. Ma, come tantissimi altri aspetti della mia carriera, è stata una soddisfazione a livello artistico, come una medaglia al valore. Ma lo è stara meno a livello economico. È un po’ la storia della mia vita. Sono arrivato a Tom Moulton ma non faccio un decimo dei soldi che fa Benassi. Avevamo uno dei club più conosciuti in Italia ma alla fine economicamente ci ho rimesso. L’arte non paga, almeno così è stato nel mio caso.
Questo messaggio andrebbe lanciato a quei ragazzini di oggi che sognano di diventare dj famosi, vedono personaggi che dopo due tracce EDM svoltano e si buttano nella mischia in cerca di fama.
Eh, quello è cercare di diventare famosi, non è arte. Fare arte è un’altra cosa. Non è andare in consolle e alzare le mani di fronte a un pubblico che ti venera senza motivo. Se cerchi l’arte, andrai su strade completamente differenti.
Insomma, la colpa è di quel pubblico che compra e segue quel tipo di mondo e non la vera qualità. O forse il problema è che quelli capaci di affrontare la questione commerciale senza sputtanarsi si contano sulla punta delle dita. Pensa ai Daft Punk: cosa son stati agli inizi e cosa sono diventati adesso. Uno dei gruppi elettronici più popolari di sempre eppure ancora rispettatissimi dalla base.
Eh certo, perché la competenza ce l’hanno. Meritano la stima che la gente ha per loro. Stessa cosa Benassi, appunto, ha avuto una sua storia e un suo percorso, è partito dal nulla e si è guadagnato quel che ha adesso. E non è che si andava atteggiando cercando di diventare famoso, lui stava semplicemente facendo la sua musica, la migliore di cui era capace. E alla fine quelle soddisfazioni se le è meritate. Magari ha avuto anche la fortuna di essere nel posto giusto nel momento giusto, ma se l’è meritato. Oggi invece vedo tanti giovani che cercano solo di sfondare, inseguono la fama, l’immagine…
È lo specchio di quel che accade in tutto il mondo, su ogni livello.
E ti dirò: da questo punto di vista, questa voglia di riesumare oggi le stelle del passato, tipo Baldelli, DJ Harvey, Moroder che suona a Milano, secondo me è una bella cosa. È il giusto contrasto alla dance dell’apparire che dicevamo prima, la riscoperta di chi ha dei meriti veri.
La differenza tra chi ci è e chi ci fa.
Esatto, è bello vedere che c’è seguito anche per chi “ci è“, una volta tanto. Alla fine penso ci sia spazio per entrambe le cose. Quando sei giovane e ascolti in maniera inconsapevole magari vai dietro alla roba più plasticosa, poi cresci, inizi a ragionare sui vari input musicali che hai vissuto e vedi che inizi a cercare la qualità.
E qui stai dicendo esattamente quel che dicevamo qualche tempo fa, su quanto può farci comodo questa nuova fase commerciale dell’elettronica.
C’è spazio per tutto. Certo, l’effetto finale è che oggi è molto più difficile di prima trovare dischi di qualità.
“Alla fine di ogni secolo c’è una corsa alla sperimentazione che produce livelli culturali e artistici altissimi, e poi quando inizia il secolo successivo si rallenta e si prova a capire quel che è successo.“
Questo è anche frutto del fatto che oggi chiunque ha le possibilità di mettersi a produrre. Lo fanno in tanti, forse in troppi, e la qualità media si abbassa.
O forse si è abbassato il gusto. Com’è possibile che un disco della Discotto nell’82 lo buttavo dalla finestra e oggi mi piace un sacco?
Non sarà che, dopo tanti anni di storia musicale, sia diventato più difficile produrre materiale innovativo e si abbia più voglia di recuperare le briciole che ci siam persi del nostro passato? Forse oggi è più interessante vedere come tutto è nato, invece di pensare alla musica del futuro.
Sicuramente c’è anche questo. E questo succede sempre a ridosso del passaggio di secolo: alla fine di ogni secolo c’è una corsa alla sperimentazione che produce livelli culturali e artistici altissimi, e poi quando inizia il secolo successivo si rallenta e si prova a capire quel che è successo. È successo nel seicento, nell’ottocento, e oggi accade di nuovo, stiamo cercando di metabolizzare la marea di roba che musicalmente siam stati in grado di fare dagli anni 60 ai 90. John Coltrane, il primo rap, la nascita dell’elettronica moderna…
In chiusura, volevo sapere da te come vedi la scena italiana oggi.
È cresciuta un bel po’. Abbiamo sempre avuto un gran bel fermento e oggi ce n’è ancora di più. Vedo più da vicino la mia scena, quella nu disco e dintorni, e vedo che ci sono tanti bravi ragazzi che si impegnano, comprano strumenti e investono su sé stessi. È lo spirito giusto e mi fa un sacco piacere.