Ti piomba come un asteroide sulla testa questo maledetto lockdown, e non sai come uscirne fuori; ti guardi intorno ed involontariamente sei circondato da solitudine, isolamento con una voglia matta di poter renderti utile al fine di limitare i danni causati dal virus. Ecco che quella piccola fiammella chiamata passione si fa largo allora, sgomitando in un mare di incertezze dove anche la più solida convinzione si sgretola facilmente. La passione di suo viaggia a braccetto con la riscoperta: oggi più che mai quel valore da rintracciare costantemente affinché si possa immaginare un futuro, seppur molto incerto, ma ricco di idee e spunti da tenere in cantiere. Tanta musica riprende nuova linfa, vecchi cimeli riaffiorano da soli, e una serie innumerevole di feticci stanchi di poche attenzioni riappaiono involontariamente. Si fortifica così l’idea di porre le basi su un esperimento condiviso dove la parola è affidata a chi da sempre è manipolatore di emozioni altrui: dj, produttori, musicisti.
Dieci gli artisti contattati allora, a cui è stato consegnato l’incarico di recensire un brano riscoperto durante questi giorni di isolamento. Il risultato è chiaro: tutti avevano qualcosa dentro da voler condividere sposando all’unisono la causa della riscoperta tanto attuale per un consistente rilancio di tutto l’indotto musicale. I più disparati generi si incastrano fra di loro e poco importa che si parli di house, avant-pop o un certo cantautorato di nicchia, qui si lasciano parlare le emozioni in un vortice improvvisato di musica e riscoperta.
***
Alessandro Parisi: il valore della purezza come punto di partenza, da lì il motto: “Se ci si vende per poco si vale poco”. Tante le produzioni alle spalle con un album in uscita a completare un curriculum già denso e ricco di suo.
The Spirit Of Bulgaria by Danse Macabre – [Subway 019, 1988 BE]
Una delle formazioni più produttive e fondatrici dell’era New Beat belga era composta da Herman Gillis, Jo Casters, Roland Beelen. Sono arrivato a loro partendo da una famosa hit: “Move you ass and feel the beat”, selezionata per un dj set “Ritalo Disco” al cafè Le Louvre a Bruxelles qualche mese fa. Come al solito, vado a scavare nei meandri di Discogs e scopro che oltre al progetto mainstream Erotic Dissident ed almeno una ventina di altri “one-shot-project”, avevano anche realizzato questo disco molto oscuro, catartico, rituale. La traccia “The Spirit of Bulgaria” contiene un sample di qualche coro religioso (non ho ancora scoperto quale) ma il termine “Dance Macabre” si rifa ad un tema iconografico medioevale diffuso soprattutto nei balcani che ritrae una danza a cui partecipano scheletri ed umani. Da qui il reverse-engineering che mi fa risalire alle influenze balcaniche del trio, già presente sul pezzo con l’alias Trio Balkana. Stesso tema ripreso (presumibilmente) da Brassica con “Ballo dei morti” 26 anni dopo. Nella traccia scelta quello che mi piace di più sono gli elementi ritmici ed il groove disco fat della new beat, ma non contiene (quasi) tutte quelle distrazioni vocal campionate e gettati a caso nella mischia “che tanto va bene così”. Al contrario, ha una solidità inaspettata e la mancanza di un basso portante la rende perfetta per dj set in cui si vuole inserire un pò di esoterismo danzereccio. È questa, per me, “Esoteric-disco”.
***
Indian Wells: chi l’ha detto che per essere uno stimato produttore di musica elettronica bisogna abbandonare la propria terra. La Calabria per questo apprezza e ricambia, per lui più di chiunque altro vale il detto: “Il futuro è la provincia”.
Verso by Anenon – [Friends of Friends, 2018 US]
Potevo iniziare questo piccolo racconto sulla mia riscoperta rispolverando qualche pezzo datato, di una ventina di anni fa almeno. Ma meglio essere onesti, allo stato attuale passo più il tempo a fare musica che ad ascoltarne (ahimè), nonostante la clausura forzata e sicuramente il maggior tempo a disposizione. La mia riscoperta è particolarmente recente se non recentissima. Parliamo di un disco che ha da poco compiuto due anni e che quando mi arrivò mi piacque molto, Tongue. Me lo spedì la mia etichetta, la Losangelina Friends of Friends che era poi anche l’etichetta di Brian Allen Simon, in arte Anenon. Poi come succede spesso di questi tempi i dischi durano poco, la musica in uscita è tantissima e il vinile è finito allineato insieme agli altri in soggiorno. Fino a quando i recenti avvenimenti mi hanno costretto a passare molto più tempo a casa svegliandomi e fare colazione in modo dignitoso, con lentezza, come poi dovrebbe essere normalmente. Spulciando tra i vinili me lo sono ritrovato tra le mani ed è diventato la colonna sonora dei miei risvegli. Un misto di jazz, classica, ambient ed elettronica di altissima fattura. In particolare c’è un brano, “Verso”, che sembra attraversare lentamente il tempo e i luoghi, gli stessi che allo stato attuale possiamo solo immaginare o vedere in foto. Non è un caso tra l’altro che Brian abbia remixato un brano di Ryuichi Sakamoto. Curiosità: il disco è stato prodotto e registrato in un mese a Palaia, in Toscana.
***
Andrea Benedetti: il suo libro “Mondo Techno” rimane un testamento per chiunque abbia voglia di andare in profondità su tematiche che riguardano una certa sfera “underground”, non solo techno ma molto di più. Imperdibile una sua lezione sulla genesi e l’evoluzione del suono elettronico.
Funky funk funk by Reese – [Fragile records, 1991 US]
Dopo tanti anni che sento techno, ci sono innumerevoli pezzi che hanno colpito la mia immaginazione, disegnando paesaggi sonori nuovi che neanche il “Rover” è riuscito a fare su Marte. Uno però resta fisso nella mia valigia e suono sempre appena posso: “Funky funk funk” di Reese ( Kevin Saunderson). E la cosa è strana perché Saunderson è forse uno degli iniziatori della scena Techno di Detroit che meno ha retto nel lungo periodo perdendosi in inseguimenti improbabili verso il mondo del dj stardom con set francamente trascurabili, se non commerciali. Cosa che invece nel lungo periodo non è accaduto con la sua produzione discografica iniziale che mantiene quell’aurea di perfezione originale che è fondamentale per la definizione di ogni nuovo genere musicale. “Funky funk funk” appare come B-side di “Inside out”, un 12” uscito nel 1991 su Fragile, sub label della Transmat del suo amico di sempre Derrick May. Sul lato A c’è “Bassline”, uno dei pezzi simbolo della Techno di Detroit che in parte oscura la genialità di questo brano costruito su una cassa in quattro morbida, ma presente che fa da tappeto percussivo ad una serie di elementi ritmici inusuali. Primo fra tutti un tom pitchato medio alto con un reverbero gate lungo e poi un incredibile incastro di hi hat chiusi e ride stretto. Un groove pazzesco e mai sentito prima che prende il jack dell’house e lo porta diretto in una fabbrica della Ford aggiungendo una sorta di allarme/urlo robotico che urla la distopia della Motor City e un basso/non basso che pulsa per tutto il pezzo come un mostro alieno dietro le caviglie. Funky funk funk è il segno tangibile del geniale eclettismo della Techno della Detroit degli inizi e anche un monumento, ancora lucido e possente, ad una rivoluzione musicale abbandonata troppo presto nella ricerca di una fama che non poteva sapere di futuro.
***
Marcello Giordani: da sempre appassionato e collezionista di brani italo-disco, il suo blog italodeviance è diventato un punto di riferimento per tutti gli amanti del genere tra podcast e video di reportorio. Con il progetto Marvin & Guy facile intercettarlo un sabato a Bangkok e la settimana successiva a Kiev.
Young Men by Nite Lite (Instrumental) – [Musix Records, 1983 IT]
Partiamo dal presupposto che Maurizio “Sangy” Sangineto per me é Dio. Lui e la sua Musix Records non hanno sbagliato un colpo, dalle release Boogie Disco dei Firefly ad Armed Gang e le voci di Kenny Clayborne e James Otis White Junior. Di singoli ne ha pubblicati di base 7, ovviamente tutti presenti nella mia collezione dall’alba dei tempi e, tra questi, c’é Nite Lite – Young men del 1983. La settimana scorsa mi é ricapitato tra le mani e devo dire che, la versione strumentale, si piazza tranquillamente nella mia Top 10 Italo Disco. Il 1983 é stato un anno di transizione, unico nel suo genere, l’inizio di una evoluzione tecnologica che riguarda soprattutto l’uso massivo di synths e drum machines nelle tracce Disco rendendole Elettroniche (non a caso si vocifera che i primi dischi proto-House vennero prodotti in Italia proprio nel 1983). Nel 1984 giá era cambiato tutto, con l’avvento appunto di nuove macchine (soprattutto drum machines) che hanno cambiato totalmente il suono rendendolo piú morbido, melodico e piú lento. É stato un anno magico dove sono stati creati delle vere e proprie hits (vedi Casco, BWH, Charlie, Expansives per citarne alcuni). La mia missione é riportarlo ai giorni nostri cercando di ricreare, con le mie produzioni, quel suono “gritty” ma assolutamente splendido che gli amanti del genere di tutto il mondo ci invidiano. 1983 again!
***
Claudio Coccoluto: Parigi, 1996, il locale è il Queen e due giovani sbarbatelli si dirigono verso la console consegnando dei test pressing (promo). A distanza di anni i due ragazzi hanno indossato maschere robotiche chiamandosi Daft Punk e il dj in console è stato nominato a furor di popolo “Italian house master” a tempo indeterminato.
Tonight by Those Guys – [Basement Boys rec, 1991 US]
La riscoperta non è tanto legata al brano celeberrimo, per chi abbia frequentato l’House dei primissimi anni ’90, ma nel potere evocativo che ho potuto testare in questi giorni: sto facendo delle dirette IG costituite da chiacchierate, ricordi e aneddoti su fatti e cose successe in quel periodo e tra le tante citazioni musicali ho fatto ascoltare questa traccia, sono rimasto stupito dalla quantità di commenti e messaggi (non i soliti banali complimenti ma articolati ricordi di una serata, un momento o un luogo) che ha provocato, talmente tanti che spolverando il vinile dal tempo sedimentato, l’ho riascoltata 3 volte di seguito in cuffia per “sintonizzarmi” con chi mi aveva scritto e sono riuscito a provare lo stesso brivido del primo ascolto!Un brano tecnicamente semplice, beat classico 909 con shuffle 56%, classico giro di accordi simil Hammond (Korg M1) string pad e il campione di voce leggermente dissonante (qualcosa che in un bel viso femminile chiameremmo “strabismo di Venere”) ma soprattutto una struttura che alterna gli elementi in maniera magica, che non vorresti finisse mai mentre lo balli! Un capolavoro di semplicità ed efficacia nel generare emozioni, allora e oggi.
***
Bottin: grande ammiratore della cosidetta “discografia bianca” di Lucio Battisti, quella che per intenderci si allontana dai falò e dai ritornelli acchiappa folle. Figura centrale di un certo circuito musicale con lavori e produzioni di spessore, da Lucio Dalla ad Alexander Robotnick per esempio il passo è stato breve.
Le Funi / Vela e Mare by Flavio giurato [CGD, 1984 IT]
Due accordi in croce, la e rè minori, conditi da una settima che li colora di blu. Giurato inizia quella che sembra una canzone narrativa ma presto rimane senza parole e resta lì a ripetere l’ultimo verso come un disco incantato, un uomo in loop che si allontana cantando di “nuovi marinai” che “tirano le funi”. Una frase poco nautica, un cialtronismo lessicale che ricorda più il gioco del tiro alla fune che l’armo di una nave. Invece è “I nuovi marinai” l’espressione più evocativa: nuovi, non solo perché giovani ma perché questo è il secondo viaggio in Oriente. Chitarra e la batteria sembrano competere per un assolo ma ci accorgiamo che non c’è crescendo né scoppio. Sono solo variazioni che increspano l’acqua della canzone che, da liscia come l’olio, è ora mossa da onde su cui galleggiano un tappeto di archi e un carillon, retaggi di ninne nanne domestiche. Si aggiunge un coro, vagamente scollato dalla voce principale. Lo sfasamento crea una specie di finta eco. Sento più grande lo spazio della musica. Anche la batteria si allarga, spande colpi sparsi; poi tace lasciandomi solo a scrutare l’orizzonte. “Vela e Mare” riparte con marinai e funi, qui Giurato punteggia sé stesso ricalcando con la voce i colpi della batteria. Il vascello si agita appena: il basso rolla, la chitarra beccheggia nervosa, poi si placa. Le parole diventano “vela e mare, barca da guidare”, anche questa un’espressione un po’ cialtrona. Chi naviga davvero sa che le barche non si guidano: si comandano. Ma in musica, proprio come in mare, il comandante Giurato sembra impartire ordini di manovra a cui la nave risponde poco dopo, con tempi più acquatici che terrestri. Fino a quando qualcuno urla “Terra!” e poi tre parole: Santa-mercato-cammella (è l’antifona del brano successivo, tutto crociati e Gerusalemme). La nave entra in porto con una nenia finto-etnica: ammainate le vele del rock, questo è balearic beat.
***
Lamusa II: elettronica ipnagogica. Detta così sembra un’espressione un pò buttata lì ma se analizzata per bene è riconducibile a tutti i suoi lavori. Poi se aggiungiamo la presenza al Sonar e una partecipazione alla Red Bull Academy si capisce fin da subito che la voglia di guardare lontano è parte integrante del suo background musicale.
Lady Moon by Il Guardiano del Faro [Cetra, 1978 IT]
“Lady Moon”, A4 del disco “Oasis”, è stata composta nel 1978 da Federico Monti Arduini meglio conosciuto come Il Guardiano Del Faro. Questo disco viene concepito in un luogo che per me ha rappresentato un importante momento della mia infanzia, dove le giornate erano estremamente dilatate e il ritorno tra la pineta e le curve di quella strada che mi portava a casa sprigionavano un sentimento di gioia e al contempo malinconia di un’altra giornata ormai terminata, quelle giornate d’estate che in un modo o nell’altro ci accomunano e ci rendono figli delle stesse sensazioni, facilmente condivisibili. Beh, questo luogo è Porto Santo Stefano, una piccola località di mare situata in Toscana dove ho trascorso gran parte delle mie vacanze in giovanissima età. Qui Il Guardiano Del Faro possedeva una casa che si affacciava sul mare, più precisamente sopra ad un faro abbandonato (da qui il nome) nella quale aveva ricreato il suo studio con sintetizzatori come Minimoog, Polymoog, Logan String Melody II, Piano Fedner, batterie elettroniche Roland Rhythm 77 e Yamaha (model ?), effetti come Roland RE 201 e registratori a nastro TEAC 8 piste, TEAC A 7300 RX e TEAC mixer model 5. Per quanto riguarda gli arrangiamenti, sono certe le collaborazioni con Johnny Farina per le parti di chitarra mentre le batterie sono curate da Tullio De Piscopo; come ingegneri del suono, Ezio De Rosa e Gianfranco Longo. Il tutto è stato mixato allo Stone Castle – Carimate & Studio Trevisani e interamente prodotto da Francesco Maria Arduini, uscendo infine sull’etichetta discografica Cetra/Fonit Cetra. La parte grafica dell’album è stata curata da Mario Convertino, partendo da un quadro di Paolo Della Valle. Un LP che ha mi ha fatto avvicinare all’utilizzo di determinati strumenti, che ha avuto una forte influenza sul mio modo di produrre e che rimarrà tra i dischi per me più belli nella sua immortale magia ed eleganza
***
Yakamoto Kotzuga: una certa abilità nel maneggiare strumenti ed essere pratici con la materia si vede nel momento in cui, già giovanissimo, ti propongono lavori di primo pelo. L’intera colonna sonora della serie “Baby” in onda su Netflix ha la sua firma, aggiungiamo poi una presenza al sonar, un’altra alla Red Bull Music Academy e il profilo artistico si completa da sé.
Sun by Koreless [Young Turks, 2013 UK]
Mi ricordo che quando ascoltai Yugen di Koreless per la prima volta ne rimasi folgorato. Era il 2013 e io avevo 19 anni, avevo iniziato da poco a produrre e conoscevo Koreless per brani come “Lost in Tokyo”, le ritmiche vagamente “future garage” e in generale l’ondata di elettronica chill che allora andava per la maggiore. Fin da subito mi aveva colpito perché ogni suo brano aveva un’ impronta molto riconoscibile, una scelta molto accurata di sonorità e in particolare di sample vocali, bellissimi e delicati, di cui io ero e sono ancora grande fan. Avevo già spulciato sul web ogni possibile informazione e suo video live cercando di capire la sua strumentazione e i suoi segreti. “Sun” fu il primo singolo estratto dall’EP ( o se non altro fu la prima traccia che ascoltai) e davanti a me si apriva un mondo nuovo. La traccia si apriva con un minuscolo frammento vocale nello stile tipico del producer, di cui si poteva addirittura sentire il click del transiente iniziale unito a una arpeggio di suoni percussivi (forse gli unici dell’intero ep). I primi 30 sec di crescendo ipnotico, teso, venivano poi spazzati all’improvviso da una linea di synth retro che man mano andava a stratificarsi per poi riunirsi all’elemento iniziale. Uno stile minimale, evoluto, freddo ma caldo allo stesso tempo, nostalgico ma potente. Un brano senza elementi ritmici ma che mantiene una tensione e un senso di attesa costante, generando in me un’emozione che non riesco bene ad identificare ma di cui riconosco la potenza. L’ho riscoperto in questi tempi incerti e devo dire che è stata una delle poche cose che mi hanno emozionato davvero, in un periodo in cui anche ascoltare musica è diventato difficile. Forse questa emozione deriva anche dai ricordi che mi legano a questo brano ma sono sicuro che Koreless sia uno dei producer più forti e sottovalutati degli ultimi anni e che se dovesse tornare ad esibirsi sarebbe il primo biglietto che comprerei appena tutto questo finirà.
***
Pellegrino: immaginatevi il Maschio Angioino di stanza a Berlino, aggiungeteci alcuni elementi rarefatti tra fusion, acid jazz, funk e voilà, la Early Sound Recording appare come un immenso ologramma. Spina dorsale e attore principale della label, le sue produzioni profumano di mediterraneo con “Caucciù” ultimo lavoro dell’etichetta.
Sera by Mario Acquaviva [Fonit Cetra, 1987 IT]
Ho scoperto questo brano un anno e mezzo fa ormai, durante una domenica primaverile di ascolti vari ed eventuali a casa di Walter Quiroga al quale va il plauso di non lesinare mai su una buona IPA ed un po’ di dischi in compagnia nel suo “rifugio”. In realtà conoscevo già piuttosto bene il primo disco di Mario (maestro di un certo modo colto di fare musica “leggera” italiana negli anni 80, forse troppo elaborato per gli anni del riflusso), complice anche la riscoperta, qualche anno fa nel mondo clubbing del suo “Notturno Italiano”. Non mi ero però mai soffermato su questo suo secondo LP “Sogni e Ridi”. Metto su la puntina fra una chiacchiera ed un’altra, skippando un po’ arrivo al secondo brano, “Sera”, parte il metronomo in cuffia per i musicisti ma ripreso dai microfoni e lasciato nel mix finale: 1,2,3, VAI, 4 e resto incantato, il trionfo del levare. Questo pezzo (assieme ad altri dell’LP come “Il nome che non c’è”, “Bassa Marea”, “Sogni e ridi”) mi ha accompagnato a più riprese durante l’ultimo anno e non nascondo che in maniera quasi inconscia mi abbiano influenzato nello scrivere i testi del nuovo LP del mio progetto Zodyaco durante le registrazioni del 2019, per poi girare in pianta stabile sul mio piatto in questi giorni di quarantena ed isolamento forzato. Sarà il fascino dell’estetica sonora tra fusion, easy listening e world music, forse perché ne ammiro la poetica dei testi, orgogliosamente esistenziale, delicata e ricercata, malinconica ma composta, in effetti come ha definito lui stesso durante una recente chiacchiera a proposito dell’album e soprattutto dei suoi testi “intimismo da seduta analitica”. Ammiro molto la capacità di esprimersi attraverso un linguaggio musicale e lessicale piuttosto personale che, come mi ha raccontato, ha cercato di costruire dal suo primo EP (o Q-Disc come si chiamava all’epoca), portandosi dietro la sua storia personale di giovane del Sud (“Nel golfo di Gallipoli s’è rotto pure il mare”) trapiantato in una Milano che in pochi anni ha cambiato faccia passando dall’impegno politico e sociale (militante e non) a quella del famoso “edonismo reaganiano” e degli orologi sul polsino. Mario era lì, a cavallo del suo tempo, raccontandolo a modo suo, portato per mano da quella voce interiore comune ad ogni musicista e creativo, o come la chiama lui stesso, dalla sua “bambina nera”.
***
Fabrizio Mammarella: sarà che il momento magico dell’Abruzzo ormai lo si respira nell’aria, ovviamente guai a fermarsi solo a qualche pietanza locale, arrosticini su tutti, ma da Fabio Celenza all’intromontabile colosso Slow Motion la potenza è devastante. Lui è la club culture che ci piace, quella che più di tutte non ha direzione ma si lascia guidare dall’eclettisimo prima di tutto.
Requiem by Killing Joke (A Floating Leaf Always Reaches The Sea Dub Mix) [ EG Records, 1992 UK]
I Killing Joke sono una band Inglese nata nel 1979 con il singolo Turn To Red. Un anno dopo hanno dato vita al loro primo omonimo album che tra influenze post punk, industrial e dub, conteneva il singolo “Requiem”. La versione che però sto ascoltando in questi giorni di riscoperta e ordine tra dischi e files è un remix uscito dodici anni dopo, nel 92, a cura di Greg Hunter e Thrash. Ho sempre trovato interessante l’interazione tra elettronica, sonorizzazioni e strumenti suonati dal vivo, e questi undici minuti di remix incarnano perfettamente questa visione di fare musica. È un viaggio spaziale che si apre con un tappeto ambient, incede lentamente e si sviluppa tra antri dub e suoni industrial, il tutto condito da elementi di elettronica, new wave e un ‘ atmosfera da trance meditativa. Da ascoltare tutta d’un fiato mentre fate stratching dopo la ginnastica fatta in casa in questi giorni di quarantena.