Ecco, questo punto è molto importante. La musica elettronica deve riuscire a tornare a costruire un immaginario. Ci era riuscita negli anni ’90 (ecco perché li rimpiangiamo): i rave, un certo modo di vestire, un certo modo di vedere la realtà (poi tradotto magistralmente anche in letteratura, il grande Irvine Welsh ma non solo lui); ci era riuscita anche con Ibiza che, piaccia o non piaccia, un certo tipo di immaginario “balearico” lo aveva costruito, pur mettendoci tanta, troppa speculazione economica dietro; ci era riuscita con Berlino, ovvio, diventato un magnete dei sognii per il nuovo ventenne/trentenne cosmpolita ed urbanizzato. Da qualche anno però la musica elettronica da club non è più al centro dei nuovi immaginari di casa nostra (lo è la trap, volenti o nolenti; lo è l’indie nazionale), e questo perché ha trascurato stile, innovazione e contaminazione/comunicazione con altri campi culturali perché era invece troppo preoccupato da se stessa o per sopravvivere e basta, o per farsi industria strutturata e profittevole. Il fenomeno più recente lo guardiamo un po’ guardinghi, ovvero la commistione tra fashion system e clubbing (giocata alla grande dalla crew Circoloco, che ha mille intersezioni e pubbliche relazioni col giro della moda, ma gli esempi possono andare a Virgil Abloh a Marcelo Burlon): non è negativa in sé, può fornire spunti e narrazioni davvero interessanti&stimolanti, ma bisogna evitare di appiattirsi sul concetto di “moda”. Il clubbing non è una moda. E’ uno stile di vita, consapevolmente e felicemente scelto (e che appunto si può tradurre anche nelle scelte estetiche e di consumo culturale nella nostra quotidianità diurna, pure in quelle più banali), e che porterai avanti anche quando ai club non ci andrai quasi più. Non è una borsetta che un anno è uno schianto, ma l’anno dopo è già passé.