No, ovviamente non è una coincidenza: anzi, sarebbe bello diventasse una consuetudine per molti. Uscire fuori col “best of Anno Precedente” esattamente il giorno di Sanremo ha un doppio effetto simpatico: da un lato immette un po’ di stimoli, direzioni e suggerimenti utili per non farsi inondare al 100% dal Moloch rivierasco, che per una settimana colonizza tutti e tutto, una sorta insomma di piccola boa alternativa da tenere di scorta; dall’altro, la corsa a pubblicare il prima possibile la propria classifica dell’anno è iniziata a diventare un po’ una gara al massacro, con le prime classifiche generali che appaiono addirittura a fine novembre (anzi: quelle che appaiono sulla carta stampata sono di sicuro state scritte a metà novembre), e al di là del fatto che questo penalizza i dischi che escono a dicembre – fattore da considerare – il punto soprattutto è che di nuovo l’amore e l’interesse attorno alla musica non diventa un valore in sé, ma una gara. E se le gare fanno bene all’economia, fanno molto meno bene all’arte. In tempi in cui troppo spesso si certifica il valore di qualcosa a seconda di quanti dischi d’oro o quanti cuoricini sui social accumula, un messaggio importante da riaffermare.
Ecco, questa la premessa doverosa. Se questa lista esce oggi, non è insomma un caso. Se sarà letta da tre persone o trecento, non importa: resta la gioia di provare a condividere l’amore e il rispetto per alcune creazioni sonore che sono uscite nel 2023 e che, ciascuna a suo modo, hanno reso la vita di chi scrive migliore, nel suo piccolo. Cosa non certo successa con lavori molto deludenti e molto sciapi come il disco della Polachek o il tentativo di entrare nel pop di Avalon Emerson. Ma magari fra qualche giorno parleremo anche delle delusioni più forti del 2023. Intanto però ecco le cose che ci sono sembrate le più belle.
…in ordine strettamente alfabetico: perché sì, non sempre è una gara. Non sempre è una gara.
Admiral, “Do You Want To Sit On The Green?”
Tra le varie ingiustizie che il mondo della musica ha creato e sempre creerà, una piccola e significativa è il fatto che uno come Adam Bourke non sia diventato un producer affermatissimo, richiestissimo e veneratissimo. Lui se ne è fatto una ragione, e a tempo perso si è creato una valvola di sfogo a nome Admiral con cui fare musica che sia ancora più folle, ancora più lunare, ancora più psichedelica rispetto al suo originario marchio di fabbrica beat / future funk con cui si è fatto conoscere. “Do You Want To Sit On The Green?” è una bestia particolare: una gemma nascosta e stralunata che, grazie anche all’aiuto dell’amico Panoram, non è rimasta negli hard disk ma ha potuto circolare ed arrivare a noi tutti. Un divertissement, sì, ma quanta ispirazione, quanta classe.
Arooj Aftab, “Love in Exile”
Vijay Iyer è una delle cose migliori accadute alla musica nell’ultimo decennio e passa. Pianista di grande intelligenza e sensibilità, potenzialmente catalogabile nel contenitore jazz, ha in realtà una meravigliosa capacità di pensare “collettivamente”. È forse lui più di tutti a rendere stellare questo intimo, dolce, malinconico viaggio-a-tre guidato dalla voce della cantante pakistana Arooj Aftab e completato dal polistrumentista Shahzad Ismaily. “Love In “Exile” esce per una label che è una istituzione del jazz, la Verve, ma è musica senza confini nel senso più profondo del termine: per le forti influenze asiatiche, per la delicatezza degli arrangiamenti, per l’ispirazione della scrittura, per come l’elettronica sa fare capolino dando respiro ed umanità invece di toglierla.
a.s.o., “a.s.o.”
Alia Seror-O’Neall (aka Alias Error) e Lewie Day (aka Tornado Wallace) sono due australiani espatriati a Berlino che si sono incontrati grazie al mutuo amore per Madonna e Kylie Minogue. Ecco: la cosa veramente figa è che la loro trasposizione di questo mutuo amore è scura, oppiacea, sospesa, inquietante. Un tempo lo si sarebbe chiamato trip-hop; oggi questa definizione pare uno stigma (tanto che manco puoi dire che è quello che FKA Twigs fa), ma insomma, sia come sia questo disco è un perfetto anello di congiunzione tra gli Sneaker Pimps, i Portishead e i Kruder&Dorfmeister dei tempi d’oro. E lo è davvero, eh, non una pallida copia fighetta ed asettica per architetti con tanti soldi e senza gusti – quel tipo di Frankenstein sonoro da compilation chill out che, diciamolo, il trip hip lo ha in realtà sputtanato.
Natalia Beridze, “Spines”
Siamo stati, siamo e sempre saremo innamorati della musica di Natalia Beridze, aka TBA. Dopo una fase in cui, residente a Berlino ed agganciata ai giri all’epoca “giusti”, era facile vederla in Europa (e – grazie al team di C2C in primis – anche dalle nostre parti), ora che è tornato in Georgia la sua musica è in parte scomparsa dai soliti radar. Epperò non ha perso un’oncia di fascino, di poesia, di bellezza, mantenendo sempre quel glaciale ed al tempo stesso struggente equilibrio fra tecnologia e poesia, fra freddezza ed emotività. “Spines” è una delle sue migliori release da tempo a questa parte, tra l’altro. Non poteva non esserci in questa lista. E non può non esserci nei vostri ascolti.
Bud Spencer Blues Explosion, “Next Big Niente”
Al solito: li frega il nome. Anzi, ora li frega ancora più di prima. Perché la verità è che con “Next Big Niente” i Bud Spencer Blues Explosion hanno fatto un’ulteriore passo in più rispetto al blues abrasivo degli esordi, già notevole di suo: più che spazio ai virtuosismi che peraltro non mancano (i due sono degli strumentisti semplicemente mostruosi, e ribadiamo: mostruosi), “Next Big Niente” mette in campo come non mai la voglia di esplorare, di attraversare i confini del suono, di dare un senso più compiuto, contemporaneo e meno museale al termine “psichedelia”. Riuscendoci. Uno dei dischi più coraggiosi usciti quest’anno, oltre che belli, qui in Italia. Ma per molti resteranno il duo di cover rock-blues dal nome buffo.
DayKoda, “Uno”
Vabbé, se ci seguite sapete del nostro amore per DayKoda. Amore così grande da farci spendere per il suo esordio dei claim pronto-uso tipo “il Flying Lotus italiano” di cui no, non siamo assolutamente pentiti. Dopo questo esordio folgorante e un seguito solido ma leggermente meno incisivo, “Uno” è l’album della definitiva maturità. In realtà siamo convinti che Andrea Gamba non abbia ancora espresso il 100% del suo potenziale, che è siderale; ma già così è una delle menti più incredibili del panorama sonoro di casa nostra e sì, diciamolo, se fosse inglese o californiano oggi farebbero tutti a gara a lodarlo e citarlo. Confidiamo però che il tempo sarà galantuomo. The DayKoda Is Coming, tipo; e tra l’altro una musica non semplice come quella di “Uno” – una specie di “21st Century Schizoid Jazz”, per chi coglie la citazione – in questi mesi sta avendo una ottima traduzione live che vi consigliamo di intercettare, con musicisti della madonna, segno di come Andrea Gamba sia tutto tranne che un bluff. O un produttorino che spinge cursori e stop.
Deena Abdelwahed, “Jbel Rrsas”
Elettronica globale, clash spaziotemporale: i Kraftwerk che incontrano l’Asia, la Raster Noton nelle steppe, i Plaid a dorso di cammello. Il percorso di maturazione di Deena Abdelwahed è assolutamente impressionante, “Jbel Rsas” è un album dalla solidità davvero impressionante e dal concept pieno di valore, nel suo voler mescolare i fondamenti della techno, dell’IDM e dell’electro con i canoni della musica da ballo araba più tradizionale. Di anno in anno, la producer tunisina trapiantata a Parigi è sempre meglio.
Marta Del Grandi, “Selva”
A proposito di maturazione: anche quella di Marte Del Grandi è notevole. “Selva” è un disco davvero prezioso e, come dire?, “perfetto”. Tra folk, striature di elettronica, capacità di scrivere davvero sopraffina e piglio indie (quello vero, quello originario, non la rimasticature di Battisti che in Italia ora si spaccia come “indie” per antonomasia), non riusciamo a vedere un punto debole in questo lavoro. Vediamo invece solo una “intensità gentile”: non sorridente e paracula, ma semmai molto calibrata. Averne, di dischi così.
Laurel Halo, “Atlas”
Siamo sempre stati molto prudenti nell’entusiasmarci per Laurel Halo: più volte infatti l’impressione era che il concept fosse migliore della musica in sé, e che parlare bene di lei fosse più un modo per fare bella figura nel circolo dei “saputi” che reale convinzione ed entusiasmo. Ma questo evidentemente solo perché nessun suo lavoro era stato finora, almeno ai nostri occhi, così convincente, compatto ed ispirato come questo “Atlas”. Più di altre volte, la Halo si abbandona all’emotività più che all’intelligenza; e la diffusa astrazione delle partiture orchestrali – una sorta di musica classica nebbiosa e decomposta – comunica calore ed emotività più che intelligente freddezza (o fredda intelligenza). Bellissimo.
Pat Metheny, “Dream Box”
Vabbé, da queste parti Pat Metheny è un guilty pleasure. Anzi, “guilty” ‘sto cazzo, perché la capacità di del chitarrista americano di trovare sempre la vena lirica più azzeccata è troppo spesso sottovalutata da chi lo liquida come “musicista fusion”. Errore madornale liquidarlo così, va da sé; ma ogni tanto Metheny ci mette del suo quando rende troppo mobidi&carini gli arrangiamenti della sua musica, a partire dalla sezione ritmica. In “Dream Box” invece a parlare è solo la chitarra. Un viaggio acustico minimale e al tempo stesso dolcissimo, che va all’essenza del lirismo. Un Metheny al massimo della forma (anche perché qui pesca fra anni ed anni di archivi non sfruttati).
Dj Muggs, “Notes & Tones”
Verità scomode: Sun Ra è tanto bello da citare e fa tanto figo chiamarlo in causa, perché la parabola del genio pazzo del jazz che decompone e crede negli UFO afrofuturisti è irresistibile come medaglia al petto da appuntarsi; ma musicalmente è stato molto incostante e, insomma, molte sue cose sono abbastanza inconcludenti e noiose da ascoltare. “Notes & Tones” cancella completamente questo lato debole: campionandolo con gusto&competenza ed assemblandolo da par suo, con piglio “blunted hip hop” suo eterno marchio di fabbrica, Dj Muggs fa un lavoro assolutamente strepitoso, tirando fuori tutta la qualità arkestrale e mettendo da parte gli avanzi e i tagli meno pregiati. Non solo il migliore e più efficace degli omaggi, ma un disco affascinante da ascoltare tanto quanto i migliori lavori di Madlib.
Kassa Overall, “Animals”
Tutti I dischi di questo elenco sono strepitosi, ma “Animals” è forse il più strepitoso di tutti. Lo è per come riesce a prendere una materia al tempo stesso facile e difficile – il jazz, signore e signori – e ad immergerlo nell’hip hop da un lato, nell’elettronica dall’altro. Un’operazione affascinante e meritoria che spesso, però, offre risultati più belli nelle intenzioni che nel risultato finale, con outcome finali troppe volte un po’ didascalici ed autocompiaciuti. “Animals” si prende invece un mare di rischi, ma nel farlo suona viscerale, autentico e competentissimo in ogni singolo istante. Giù il cappello, davvero.
Lil Yachty, “Let’s Start Here”
Quand’è è l’ultima volta che una release di un nome molto mainstream ha sorpreso davvero? Qualcosa che ha fatto dire ai suoi fan, ma non solo a loro, “Ma che cazzo…”? Azzardiamo una risposta: “Kid A”, dei Radiohead. Tipo più di vent’anni fa. Ecco, basterebbe questo a far amare “Let’s Start Here”, dove invece di mugugni trap & 808 pronto uso ci si ritrova un indie-soul stralunato e retro-psichedelico, qualcosa che in nessun modo avevamo visto arrivare, altro che Elly Schlein. In più, oltre a essere sorprendente “Let’s Start Here” è pure bello.
Surgeon, “Crash Recoil”
È un po’ di tempo, qualche anno almeno, che Surgeon è dannatamente in forma. Veteranissimo ormai della scena techno/electro, al contrario di altri mostri sacri di quel contesto lui non si è assolutamente seduto sulle glorie passate ma ha saputo innervare il suo suono tipico di una profondità potente, incredibilmente al passo coi tempi (…la tecnologia avanza, una cosa che molti grandi degli anni ’90 hanno scelto di ignorare, cullandosi sul fatto che ai tempi della loro esplosione loro erano l’iper-futuro). “Crash Recoil” di gran lunga uno dei migliori dischi dell’anno nel campo dell’elettronica pura da dancefloor; naturalmente se per voi i dancefloor restano un luogo da esperienza mistica, non solo un drogodromo edonista felicione.
Micah Thomas, “Reveal”
Sì, bello il jazz che sperimenta, che dialoga col tremendismo urban, che flirta incestuosamente con l’elettronica, bello, bellissimo, e su queste pagine l’abbiamo sempre evocato, cercato, magnificato. Ma ogni tanto è bello fare anche un ritorno “a casa”, senza comunque essere pedanti, retromaniaci e didascalici: Micah Thomas con “Reveal” ci riesce alla perfezione, tracciando un filo tra Bill Evans e Brad Mehldau in maniera inappuntabile e mettendo comunque in luce una sviluppata personalità pianistica nel jazz puro. Non è Keith Jarrett né forse mai lo diventerà, ma di sicuro una delle voci più significative emerse in questi anni nel pianismo jazz.
Yaeji, “With A Hammer”
Ad un certo, con un po’ di faciloneria quasi razzista e di sicuro molto dozzinale, era sventolata in giro come l’anti-Peggy Gou. In realtà Yaeji è molto di meno (come dimostrano i follower su Instagram) ma anche molto di più: fa “nanana” anche lei, pure lei cioè ha il gusto delle filastrocchine (come “Raingurl”), ma in quanto ad inventiva, consistenza, competenza e coraggio artistico siamo anni luce avanti. “With A Hammer” è un lavoro sottile ed al tempo stesso potentissimo, essenziale ma contemporaneamente caldo e coinvolgente, apparentemente semplice ma in realtà calibratissimo e pensatissimo.