Che Sónar è stato? E’ stato un Sónar abbastanza interlocutorio, è stato un Sónar molto importante. Siamo impazziti? La schizofrenia ci ha preso? Troppi gol di Pellé – e chi l’avrebbe mai detto, almeno poi ha fatto la pantomima del “cucchiaio” – ci hanno mandato in corto circuito? …no, no, per nulla. E’ un giudizio molto meditato. Quest’anno il Sónar aveva contro un Primavera Sound monumentale, per forza di line up: è vero che i due festival hanno due background diversi (che però da anni si “parlano”, dopo l’iniziale incomunicabilità) e due pubblici diversi (pure qua, però, sovrapposizioni ce ne sono). Le vie erano due: provare a rispondere a tono, ma sarebbe stato comunque un suicidio, perché quel cartellone primaveriano lì semplicemente non si poteva pareggiare (sarebbe stato come andare ad un Europeo con Roy Hodgson in panchina: perdi pure con l’Islanda); oppure decidere di andare per la propria strada, senza farsi prendere dall’ansia, costruendo un festival anche più leggero rispetto ad anni passati a livello di peso dei nomi ma comunque molto, molto, molto personale e connotato. Forse mai come quest’anno, il Sónar ha fatto vedere la sua unicità: e se per il giorno è quasi una cosa “normale” (il Sónar Dia è la parte in cui si può sperimentare di più), la notte ha confermato che il Sónar è l’unico festival dancefloor oriented obbligato a far numeroni (il Sónar Noche è questo) che può permettersi di piazzare un act come Anohni nella stessa sera di un Richie Hawtin. Al Time Warp non puoi mettere il live di Anohni: il pubblico ti sbrana. Troppo artistico, troppo lento, troppo concettuale – partirebbero bordate di fischi.
Al Sónar, no. A maggior ragione adesso: sì, perché se – scusate la rudezza – i vari eventi del cosiddetto Sónar Off sono sempre stati un parassitismo legalizzato (tu festival ti fai un lavoro decennale di costruzione di “aura” attorno a quel weekend barcellonese, con un festival costruito e pensato con attenzione e competenza maniacale; io organizzatore furbo approfitto di tutta quella gente in città e tiro su una serata dal nulla e mi va magari pure bene), nell’ultimo paio d’anni è stato evidente un cambio di modalità: sono quasi scomparse le millemila serate di media dimensioni in giro per la città in cambio di quattro, cinque eventi grossi, potenti e ben organizzati (al Poble Espanyol e al Parc del Forum prima di tutto). Macchine rodate in grado di attirare molte persone, soprattutto quelle che hanno una maniacale voglia di una “festa” che sia, insomma, un po’ sempre quella, quella cioè che si può incontrare ovunque, a partire dall’Italia. Festa fatta bene, eh. Sono serate coi fiocchi, con line up danzettare sempre più di qualità e ben costruite. Però ecco, sono un po’ la “solita cosa”. E andare ad immergersi nella “solita cosa” quando nella stessa città in cui ti trovi hai uno dei festival più originali e particolari del mondo, beh, secondo noi non è astutissimo. Poi vabbé: c’è ancora chi dice “Vado al Sónar!” tutto garrulo intendendo che va ai vari party collaterali che col Sónar stesso invece c’entrano, lo ripetiamo, zero. Ignoranza, superficialità, cattiva fede, nessuna delle tre? Boh. Sta di fatto che questa riorganizzazione degli eventi non sonariani ha drasticamente ridotto al Sónar Noche la presenza di quelli che pensano solo a distruggersi, a spacciare, a urlare i soliti inni da Ibiza deteriore (o da Cocoricò fuori tempo massimo); o si sono estinti, o sono finiti anche loro al Parc del Forum o al Poble Espanyol. Propendiamo per la seconda. La cosa buona è che l’affluenza del Sónar Noche ne ha sì risentito, ma solo in parte. Una parte più che accettabile, se gli organizzatori del festival affermano – come affermano – che l’edizione di quest’anno è andata molto bene, con 115.000 presenze complessive, quindi pure un qualche punto in percentuale in più rispetto agli anni scorsi.
Quindi ecco, è stato un Sónar interlocutorio. Non ci sono stati set epocali. Non ci sono state sorprese incredibili. Non ci sono stati artisti o generi che ci hanno aperto una visione della musica completamente nuova. Scorrendo nella nostra memoria i vari set, vere sorprese, veri picchi o veri momenti epici non ce ne sono stati. Forse solo uno, ma era il più prevedibile di tutti quanti: Laurent Garnier, di cui ci siamo visti due ore sulle sette complessive (la grande novità di quest’anno ovvero l’idea del set di sette ore è bella, soprattutto se la affidi a un fuoriclasse come dj – Garnier – e non ad uno sveglio, sveglissimo, intelligentissimo ma senza un background autentico da dj, vedi Four Tet, che infatti non ha mai riempito la sala; però il problema è che se ti vuoi vedere tutte le sette ore dell’artista in questione, devi perderti tutto e intendiamo veramente tutto il resto: ha senso? Mah). Quindi ecco, che Garnier sia una divinità in grado di regalarti emozioni epiche sai che sorpresa, e tra l’altro per mille motivi Laurent e il Sónar sono un binomio indissolubile, fondamentale, esistenziale quasi. Tolto questo, abbiamo assistito a tanti set buoni, a qualche delusione, a un po’ di cose carine ma ancora imperfette. Altri anni siamo tornati con molte più perle in saccoccia, come souvenir. Ma mai come quest’anno il Sónar, nel costruire la line up, ci è sembrato sicuro e consapevole di se stesso. Non ci sono state scelte più o meno azzardate per provare a tastare altri terreni, esplorare altri territori (i Deadmau5 prima e gli Skrillex poi che tanto “scandalo” avevano provocato, per dire); c’è stata la solita varietà stilistica, la solita ricerca pronta a farsi beffe di chi concepisce solo la cassa in quattro, la solita attenzione a “fiutare” i trend che attraversano la scena elettronica più avvertita (in questo caso: la rinnovata, rinnovatissima attenzione verso i “suoni del mondo”, segnali che partono anche da Berlino, come raccontavamo nel report sul CTM). Mai come quest’anno, il Sónar ci è sembrato unico, particolare, inimitabile – fino al punto di non dover correre nella corsa al massacro a tirare fuori gli headliner più grossi, potenti, spettacolari, accattivanti. Anzi: l’ha fatto forse solo in un caso, “imponendo” ad Hawtin l’unica presenza catalana nel weekend (cosa annunciata anche nella comunicazione ufficiale), e la cosa non ha pagato, visto che il giorno dopo nella stessa sala Fatboy Slim (e ok) ma pure Eats Everything (eh??) hanno fatto più gente. Per il resto, ha tirato dritto sulla sua strada. Anche nel Dia, nessun nome pazzesco, nessun act di giga-richiamo; eppure i paganti della parte diurna, dalle informazioni che ci sono filtrate, quest’anno hanno polverizzato ogni record.
Ecco servito il paradosso, allora: il Sónar ha fatto trionfare la sua identità nell’anno in cui non ha prodotto alcun vero, totale trionfo musicale, e nell’anno in cui come mai in passato NON si è messo in gara coi grandi competitor in quanto ad eventi musicali di scala mondiale (elettronici o meno, “avanzati” o meno). I numeri, a quanto pare, tornano. Noi, ci siamo divertiti. Chiunque abbiamo sentito, veterani o novizi, già il giorno dopo la fine del festival dichiarava di voler già comprare i pass per l’edizione 2017. Però ecco, per tutti quelli che vogliono approfondire, abbiamo approntato una “formazione” a undici del Sónar 2016, compresi anche i subentranti a partita in corso: in piena febbre da Europei il rimando calcistico era troppo seducente per non essere raccolto! Ve lo potete leggere qui. Troverete chi ha fatto una gran partita, chi ha retto benissimo il gioco, chi ha sbrogliato situazioni complicate in difesa, ma anche chi ha deluso, chi ha battuto la fiacca, chi non ha mantenuto le promesse. Buon divertimento. E per fortuna che non c’è Roy Hodgson ad allenare!