Quest’anno il report è uno e trino: invece di ricondurre tutto ad un’unica voce, o di fare un resoconto a tre ma schematizzato in bocciati e promossi, ci siamo detti che era il caso di “...seguire il flusso“. Costanza Antoniella, Damir Ivic e Maurizio Narciso sono stati i nostri inviati quest’anno, e ciascuno di loro ha avuto carta bianca per descrivere il “suo” festival. Certo, i tre ne hanno parlato fra di loro, ma solo ex post, per non influenzarsi a vicenda preventivamente: il ritratto che ne viene fuori è vario, prismatico, anche divertente in alcune divergenze d’opinione (Arca, uno schifo o un gran live?), ma rende comunque l’idea di un festival dove per tre giorni ti vedi scorrere davanti la musica elettronica, pardon, “avanzata” in tutte le sue sfaccettature, anche quelle più smaccatamente pop oltre a quelle ferocemente rigorose. Ultimo appunto, prima di cedere la parola ai tre: eravamo tentati di scrivere “...mai come quest’anno la presenza femminile è stata importante, in line up” e, purtroppo, ormai lo abbiamo scritto. Non che non sia vero: è che speriamo di arrivare ad un mondo in cui questa non sia più una cosa da scrivere, in quanto troppo banale, troppo ovvia. Tipo: “Ecco, il cielo senza nuvole è azzurro“, “L’acqua è bagnata“, così via. Ci arriveremo. Tranquillamente, e grazie a line up comunque di qualità ed intelligente come quelle del Sónar e di molti altri festival, ci arriveremo.
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IL SÓNAR 2019 VISTO DA DAMIR IVIC
Il dato di fatto da cui partire è: -20.000. Sì: occhio e croce, e basandoci anche sui dati ufficiali, quest’anno le presenze al Sónar sono state ventimila in meno. Quello che è un’apparente debacle – che qualcuno su Facebook ha voluto interpretare con un “Ben gli sta, si sono buttati sul reggaeton e hanno avuto ventimila presenze in meno”: ora ci torniamo su – in realtà va “letta” per bene. Prima cosa: lo spostamento a metà luglio, invece del tradizionale metà giugno. Spostamento imposto da una fiera del tessile che già si era presa lo slot sul calendario, in questo 2019. Che lo spostamento fosse non voluto e non amato dal festival stesso, è stato confermato dall’insistenza con cui, già dall’anno scorso, si rassicurava sul fatto che nel 2020 si tornava alla scansione temporale abituale. Ed in effetti in città s’è vista meno gente: un po’ di robe del Sónar Off si sono svolte comunque a metà giugno (e sono andate malino o così così, pare), che poi sarebbe l’ennesima dimostrazione di come il carrozzone Off, a parte qualche eccezione, un po’ parassiti il festival vero e proprio; altre ci sono comunque state, ma non avevi la solita sensazione che la città fosse invasa da eventoni, eventi e serate collaterali.
E sapete che c’è? Non è stato male. Così come non è stato male anche ritrovarsi con un po’ più di spazio vitale al Sónar Dia: solo qualche anno fa sarebbe sembrato assurdo dire che gli spazi della Fira Espanya (notevolissimo upgrade rispetto al MACBA delle origini) erano insufficienti; ma l’anno scorso davvero si è stati a tappo, iniziando a soffrire un po’. Quest’anno, onestamente, si stava da dio. Perché mai si è avuta la percezione che ci fosse “poca gente”: si stava, semplicemente, giusti. Per non parlare degli spazi notturni, molto più grandi e quindi ancora più comodi, ma anche lì mai c’è stato l’effetto di sale vuote e semivuote; non-piene questo sì, ad esempio Kalkbrenner nella chiusura del sabato aveva un Main Stage notturno, il Sónar Club, insolitamente raccogliticcio e riempito per molto meno di metà, ma poi comunque quando c’erano Underworld sempre al Sónar Club o Kaytranada all’inizio al Sónar Pub gli spazi erano densamente popolati.
Eppure, pur con questo meno ventimila, in realtà al Sónar si è respirata aria di scampato pericolo, anzi, di vittoria. Sì: lo spostamento estermporaneo a luglio, ma poi anche uno sciopero degli operatori addetti al montaggio palchi, nei giorni precedenti al festival, che ha fatto spargere in città la voce che il festival semplicemente non sarebbe riuscito ad aprire e, ce l’ha garantito più di un residente barcellonese, questo ha spinto la gente a non considerarlo come una meta a cui andare quest’anno. Poi è andato tutto bene: e arrivando da fuori, non c’era la minima percezione di disfunzioni organizzative o cose acchittate all’ultimo momento. Unica imperfezione, l’audio degli Underworld in certe zone del Sónar Club, ma l’ evidentemente è stato il fonico a non “leggere” bene l’impianto e l’immensità della sala. Per il resto, tutto perfetto, un orologio. Ad ogni modo, e anche prima di questa faccenda dello sciopero, c’era la consapevolezza che questa sarebbe stata una edizione interlocutoria, come numeri: line up comunque più “scarica” rispetto già a quella, trionfale!, dell’anno scorso. Si vede che la parola d’ordine era: facciamo le cose per bene, ma limitando i danni. Segnale preciso: la percentuale molto più alta di act spagnoli in line up.
E qua c’è da fare un discorso. Se negli anni passati, soprattutto i primi, gli act spagnoli erano garanzia di “Ok, possiamo andare al bar a bere” quest’anno invece abbiamo osservato una qualità media notevole, segno che anche in Spagna – esattamente come succede in Italia – lo standard qualitativo della scena elettronica, club e/o sperimentale è diventato più che robusto (ad esempio, ottimo il set pomeridiano di Cascales). Partendo da questo presupposto, è ottimo che ci sia questa apertura netta agli artisti locali. Chiaro, non vendono molti biglietti all’estero e forse manco in patria, e a dirla tutta quelli che invece i biglietti li vendono – Bad Gyal su larga, Virgen Maria su piccola – ci sono sembrati dei set un po’ fuffa, molto performativi ma poco di sostanza, fenomeni di costume più che di musica. Poi ok, ci vogliono anche i fenomeni di costume. Piacciono, oggi: vedi un Sónar Hall strapieno per Arca, ormai sempre più melodrammatico, sempre più gender fluid, sempre più teatrale, ma sempre più statico, arido e luogocomunista come idee musicali. Sinceramente, speriamo che questo approccio passi: in realtà ha una sua valenza e una sua utilità, per evitare che l’elettronica sia solo un posto da nerd IDM o da drogatoni in canottiera che ballano pedalando, e per questo ne siamo sinceramente grati, ma una volta passata questa funzione da antidoto speriamo si torni a valutare di più lo spessore musicale e non tutto quello che ci ruota a margine. Anche il reggaeton (che sì, c’era) è un antidoto, e anzi onestà vuole che si debba ammettere come i ritmi latini e caraibici non possano essere estromessi da ciò che è ballo e clubbing; ma dobbiamo ancora vedere uno show decente. Così come pure il versante grime, vedi Skepta, continua dal vivo ad offrire la formuletta, e poco altro.
Carrellata al volo, prima di cedere la parola agli ottimi colleghi Costanza e Maurizio: il già citato Kaytranada per la seconda volta arriva con mille aspettative e tira fuori un set loffio; fra i nomi giovani e minori ci hanno regalato belle cose Milan W. e i suoi prismi, FAKETHIAS e la sua techno dura, Perel e la sua synth disco (tutti al Sónar Dome, per l’ultimo anno in partnership con la Red Bull Music Academy); fra i grandi classici bene Underworld (messa cantata, ma averne), Fennesz (denso ed intenso), Andy C (divertentismo puro, ma funziona), Dj Krush (ormai suona dubstep scarna come Mala, solo molto meglio); italiani brava gente grazie a Caterina Barbieri (bravissima, sempre più brava), Yakamoto Kotzuga (ispirato, elegante), Quiet Ensemble (un po’ lunga e da limare la loro performance A/V per teste mobili, ma con momenti notevolissimi), Dj Tennis (su un’onda più veloce, trance ed acida rispetto a qualche anno fa, ma sempre padrone della situazione) e pure con Stargate di Lorenzo Senni, anche se questa sua versione in band alterna momenti superfighi, davvero superfighi ad altri un po’ crassi e da rock datato d’altri tempi.
Vincitori assoluti per me? I Red Axes, col loro live acido-analogico, e Deena Abdelwaheed, che sta veramente trovando la giusta dimensione e cavernosa profondità per il suo incontro/scontro di elettronica e musica nordafricana.
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IL SÓNAR 2019 VISTO DA MAURIZIO NARCISO
Una premessa doverosa: il Sónar è uno stato della mente; un festival che attendiamo tutto l’anno e che arriva, puntuale, a ricordarci che è iniziata l’estate; una vetrina d’eccellenza per capire da che parte sta andando/andrà la musica (non solo) elettronica; un luogo dove ballare/lasciarsi andare/essere se stessi senza avere addosso occhi ipocriti; una realtà festivaliera con pochi eguali a livello di organizzazione-gestione degli spazi-acustica; probabilmente è anche la rassegna che meglio ci rappresenta, come singole penne ma anche rispetto a questa strana entità-pot pourri di gusti-rivista che si chiama Soundwall – per chi scrive è il decimo anno consecutivo di presenza, fate un po’ voi. Però, è altrettanto vero che quando partiamo per il capoluogo della Catalogna ci aspettiamo sempre il massimo, pretendiamo che il livello della rassegna sia perlomeno pari a quello degli anni precedenti, c’è la tacita pretesa di collezionare altri momenti preziosi da riporre in quel cassetto già affastellato di ricordi, che sono speciali proprio perché vissuti con la consapevolezza di trovarsi nel posto giusto al tempo giusto. Insomma al Sónar non facciamo sconti.
È con questa consapevolezza che siamo partiti per la ventiseiesima edizione del festival; con giusto qualche nube in più nella testa perché questa del 2019 è stata la prima volta in luglio anziché giugno (ma dall’anno prossimo torna tutto a posto) a causa dell’indisponibilità di alcuni spazi che, con il tempo, sono divenuti indispensabili alla rassegna ed ai suoi numeri sempre crescenti (l’anno scorso, edizione dei record, ha toccato quota 125.000 presenze). Questo slittamento non è roba da poco conto, considerato che un pubblico mondiale è abituato, da più di cinque lustri, a non avere impegni in un determinato periodo dell’anno, che poi è quello più adatto ad avere una “giusta distanza” dalle vacanze estive vere e proprie. Oltretutto, appena giunti in loco, abbiamo scoperto che gli organizzatori hanno dovuto combattere, pure, con uno sciopero generale dei montatori di palco (!) che cadeva proprio nel periodo di interesse del festival. Vi sveliamo questi retroscena per completezza di informazione, sì, ma anche per rendere l’idea di quanto sia complesso far girare la macchina Sónar (“da un grande potere derivano grandi responsabilità” ça va sans dire).
Ma veniamo alla musica. Perché se sulla carta la line-up 2019 era sostanzialmente carente di quell’effetto sorpresa che solo l’annuncio di nomi “monstre” porta con sé – probabilmente quanto su detto avrà influenzato talune scelte artistiche – alla luce dei fatti quella di quest’anno è stata una bella prova di forza e di savoir-faire, come a voler ribadire, in chiare lettere, quella che è la “mission” bicefala del festival, ovvero da una parte essere una vetrina della migliore musica contemporanea di ricerca (o, meglio, in campo artistico in senso lato) e dall’altra far muovere il corpo, coinvolgendo nomi importanti/storici ma pure con proposte meno patinate seppure (assai) promettenti.
Il set con cui Daphni ha chiuso la prima giornata al Sónar Dia
Di ricerca, o per usare uno dei vecchi claim della rassegna “musica avanzada”, ce n’è stata e tanta: Arca sempre più in forma (e sempre più donna – meno male perché ci è sembrato molto più felice e a sua agio col proprio corpo, con tanto di cambi d’abito dal vivo, rimanendo in nudità appena in disparte) che sta progressivamente limando gli spigoli della sua musica, finanche facendo entrare della luce sotto forma di dance-pop / bass music, ammiccando a SOPHIE e, attenzione, un po’ anche a Rosalia (staremo a vedere se su disco seguirà queste coordinate sonore). E poi Holly Herndon, salita sul palco assieme a un coro di cinque elementi (utilizzati in modo non comune: due uomini che eseguivano le linee melodiche e tre donne che impostavano i vocalizzi più ritmati) e al suo fido sodale Mat Dryhurst, per riprodurre in modo più “organico” il suo ultimo, bellissimo disco “Proto”. Abbiamo vissuto un paradosso, considerato che l’intelligenza artificiale alla base del progetto, che al tempo si è nutrita di input vocali/sonori per restituire una musica altra, è stata a sua volta ri-umanizzata dal coro. In una parola: imperdibile! E poi ancora Actress, anche lui entrato in fissa con l’i.a., che si è inventato un alter ego chiamato “Young Paint” a cui ha fatto assimilare la sua intera discografia, per riceverne indietro un’elettronica oscura e puntillistica che ha estasiato l’intera audience in una sorta di trance collettiva. Assai interessante inoltre – ma ancora non perfettamente a fuoco – l’idea artistica della coppia Daito Manabe e Yukiyasu Kamitani che ha indagato le interazioni tra il cervello umano e diversi stimoli pseudo-musicali (su uno schermo venivano proiettate stravaganti immagini sugli stati mentali, mentre la componente musicale prendeva forma dal verso dei gabbiani; dal nitrito di un cavallo o da altri rumori concreti). Molto bene anche la proposta dei due sperimentatori italiani: Lorenzo Senni con il progetto “Stargate” che lo lega al collaboratore Eddy Current, ha dato forma a un set energico in cui la sua tipica musica neo-trance veniva generata dalle chitarre (opportunamente effettate), per quella che potremmo definire la “wave del futuro” (forse lo preferiamo col progetto in solo, ma l’idea è stata stuzzicante) e Caterina Barbieri, che non smette di evolvere la sua sontuosa formula di elettronica ora minimale ora cosmica e ricca di pathos. Un po’ deludenti invece sia Lotic, che si è presentata attorniata da un macchinario genera-aria che le sparava i lunghi capelli in aria, come nelle pubblicità degli shampoo, mentre cantava sui pezzi pre-registrati del suo ultimo disco “Power” e Bill Kouligas, a cui sarebbe bastato selezionare dei pezzi della sua etichetta delle meraviglie PAN anziché spingere tutto il tempo sull’acceleratore di un dj set senza guizzi.
Ma si è anche ballato, e bene, dicevamo, con le intuizioni dei fantasmagorici Body & Soul (ovvero il trio François Kervorkian-Danny Krivit-Joe Claussell) e il loro set di sei ore filate con cui hanno spostato il “Sonar de noche” di peso a New York, incredibilmente anche rinnovando a tratti la storica formula, con inserimenti contemporanei azzeccati – abbiamo ascoltato una tiratissima “Open Eye Signal” di Jon Hopkins mentre ai comandi c’era Kervorkian. Altro set fiume di sei ore consecutive, pieno di chicche musicali – ma non poteva essere altrimenti – quello di Floating Points, che ha dato sfoggio della sua collezione di dischi soul-house-funk in vinile recuperati nel tempo in chissà quali mercatini delle pulci (siparietto divertente: a un certo punto sul palco è stato raggiunto da Keiran Hebden e da Dan Snaith che si sono seduti dentro le macchine a scontro poste ai due lati della console). Ottimi anche i Disclosure, i due fratelli inglese sono cresciuti ancora e ora, oltre a sfoggiare un’incredibile conoscenza musicale a base di house / Uk garage (crediamo che abbiano passato l’infanzia su YouTube) sono del tutto padroni dello stage e del groove davanti a una platea sempre numerosa e festante. Anche Four Tet, che spesso e volentieri passa per il Sónar, ci è parso in buona forma, seppure abbiamo trovato il suo set più “hit oriented” rispetto a quel misto di groove e gemme rare a cui ci ha abituato quando ha voglia di dare tutto. E poi gli Underword, lo diciamo? In forma come non mai a livello fisico/d’impatto, eppure è stato un peccato perché volevamo un concerto come quello del 2011 (sempre Sónar) e invece l’effetto finale è stato un po’ quello del best of telecomandato (Poi, ok, assistere dal vivo a pezzi come Rez; Cowgirl; Born Slippy Nuxx e compagnia bella è sempre, sempre emozionante). Avvincente anche assistere al set diurno di un mito quale Dj Krush, che oggi fa post-dubstep, o alle tre ore filate di Theo Parrish che nel mezzo di tanta deep house riesce a infilare pure il reggaeton!
Dj Krush in azione; continua sotto
E le proposte meno patinate seppur gustosissime? Eccoci accontentati con i ritmi sudamericani riattualizzati al qui e ora di Dengue Dengue Dengue e Nicola Cruz e con il soul-funk-jazz di Masego e French Kiwi Juice (che bella scoperta questo multistrumentista che si esibisce circondato da tastiere, chirarrre, basso e sax).
Fiore all’occhiello del Sónar, inoltre, sono le scoperte che si fanno in loco e che ci accompagneranno nelle prossime settimane di approfondimento: l’insostenibile irregolarità di Virgen Maria; la techno sciamanica e orientaleggiante di Deena Abdelwahed, il delicato tocco electro-acustico di Kelly Moran.
Menzione d’onore, infine, per la Brexit Big Band di Matthew Herbert (il nome completo è: The Matthew Herbert Great Britain and Gibraltar European Union Membership Referendum Big Band) che nella suggestiva cornice del prestigioso teatro (finto) greco all’aperto di Barcellona ha offerto, a una platea composta sia dagli habitué del luogo che da quelli che come noi hanno i braccialetti del festival attaccati al polso, uno dei concerti più emozionanti a cui abbiamo assistito recentemente. Herbert si alterna tra le macchine (synth; campionatori) e la supervisione dei due direttori, rispettivamente di coro (abbiamo contato sessanta elementi) e orchestra, per eseguire pezzi che sono come ideali abbracci di fratellanza al mondo. Nel corso della serata una serie di atti-espedienti politici (strappare riviste inglesi sul palco; incitare il pubblico a lanciare aeroplani di carta con dentro annotati messaggi per il popolo inglese; campionare il grido di dissenso della platea) vengono incorporati nel flusso sonoro/canzone con una naturalezza disarmante per andare a comporre un’indispensabile manifesto corale di dissenso alla brexit.
Un concerto necessario (visti i tempi che stiamo vivendo) posto a chiusura di un’edizione festivaliera che magari ha registrato un pizzico meno di pubblico ma che si è anche rivelata essere – come si usa dire nell’hip hop americano – più “conscious” che mai!
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IL SÓNAR 2019 VISTO DA COSTANZA ANTONIELLA
Io un’abitudinaria non lo sono mai stata e, anzi, se c’è una cosa che mi spaventa parecchio, quella è proprio la routine. Se però non sopporto fare sempre le stesse cose a determinati orari, questo non vale se si tratta di ripetere annualmente rassegne musicali o frequentare luoghi dove mi diverto. Il Sónar ormai è quindi per me appuntamento fisso, è il festival che mi ricorda che non ho ancora capito perché vivo a Berlino anziché a Barcellona, che segna l’inizio dell’estate e che arricchisce quel deserto musicale che generalmente si impadronisce di me durante i mesi primaverili. Quest’anno però, per molti, il Sónar non ha segnato l’inizio di nulla: perché una buona parte degli habitué della rassegna catalana ha dovuto rinunciarvi a causa del periodo decisamente sfigato, luglio anziché giugno. Se è vero quindi che il calo delle presenze è stato netto (si parla di -20mila persone come ha già detto Damir), è anche vero che quest’anno gli organizzatori hanno giocato in difesa presentando un programma sì ricco di artisti di spessore, ma senza piazzare headliner con cachet da capogiro che sarebbero stati un azzardo per un’edizione così “delicata” del festival. Ammetto però che quest’anno ho sentito meno roba figa rispetto a quelli passati. Il giovedì, ad esempio, passa senza grandi note di spessore fatta eccezione per Arca e il suo show “Sal de Mi Cuerpo” capace di far sbavare anche il più etero degli uomini. Daphni in chiusura divertente, forse poco pulito nei passaggi e banale nella selezione, ma che fa sculettare il pubblico femminile e tiene compatto un dancefloor, di suo non troppo gremito, fino alla fine.
Il venerdì della tre giorni spagnola è stato a mio avviso alquanto sottotono, partendo dall’assenza forzata di A$ap Rocky ancora rinchiuso in una qualche ammuffita cella del carcere di Stoccolma e sostituito in corner da uno Stormzy ancora troppo acerbo per accaparrarsi uno slot orario così importante, nella cornice del Sónar Noche. Il Sónar de Dia di suo va liscio ma non colpisce se non per il live di Masego, che ci prepara all’interessantissima performance del giorno dopo del collega FKJ (o French Kiwi Juice che dir si voglia).
Il venerdì la gente è presa bene, ci sono i colori, i bambini con quelli che io chiamo “orecchioni” (le cuffie a proteggere l’udito), ma la musica non va, non entusiasma praticamente mai. Al Noche non ne va dritta una, partendo con Four Tet che suona cose che non vorremmo mai sentire da lui e Dj Koze disattento e svogliato che ripropone “Only Human” come secondo pezzo quando Kieran Hebden, che gli suona subito prima, la mette come penultimo disco. Il tutto termina con l’accoppiata Palms Trax-Peggy Gou che ci saremmo tutti quanti risparmiati volentieri.
Al sabato l’antifona cambia completamente: FKJ, all’anagrafe Vincent Fenton, parigino classe 1991 è un cantante polistrumentista che la musica la sa fare e che con la musica comunica tutto quello che c’è di splendido in essa. È un’ora intensa la sua: sono le quattro di pomeriggio e il sole picchia dritto sulla testa, ma il caldo non c’è e non si sente, se non quello che infiamma il cuore. Dopo un po’ un Theo Parrish sempre in ottima forma scalda il dancefloor del Dome, mentre i Red Axes infiammano il Village con un live dal groove galoppante e consegnano una pista caldissima ad Erol Alkan, che cavalca il trend e ci porta dritti fino alla chiusura del Sónar Dia senza mai farci smettere di ballare e con brividi su tutto il corpo. Se volete capire meglio di cosa sto parlando potete vedere (ma soprattutto ascoltare) il suo set qui.
Al Noche le cose vanno anche meglio: c’è Skepta che promuove il nuovo disco – e se ti piace il grime non perderti il live dell’inglese per nessuna ragione al mondo – e Blawan che nonostante un problema di aereo in ritardo ha, assieme al collega Dax J, dato ai mangiatori di techno davvero pane per i loro denti. Concludo menzionando la performance di Dixon che non ci fa sentire per niente la mancanza di Garnier (il vero maestro delle chiusure sonariane…), anzi! È riuscito a far ballare anche la sottoscritta che il tedesco di Innervisions, insomma, non l’ha mai digerito.
Il festival è quindi andato tutto sommato bene, per un’edizione che rischiava di essere un grandissimo flop e che si è rivelata invece all’altezza delle aspettative del suo pubblico: un pubblico esigente, che unisce famiglie con bambini ad animali da pista delle peggio specie fino ad addetti ai lavori e a gente che ogni anno sa che passare per Barcellona è il modo migliore per aggiornarsi e immergersi nel panorama musicale del momento. Luglio ci ha risparmiati dall’essere torrido e invivibile, dandoci la possibilità di godere di tutte le proposte musicali anche negli orari più “spaventosi”. Giocare d’astuzia, quindi, significa anche capire che c’è il momento per fare grandi passi e grandi azzardi, e quello invece per fare quelli che si ridimensionano un po’ al fine di limitare i danni. E così è stato. Il Sónar si riconferma per il ventiseiesimo anno di fila, uno dei caposaldi tra i festival estivi, in grado di far fronte anche ad un periodo che non è roba sua e portando a casa un ottimo risultato. Ci rivediamo l’anno prossimo, finalmente e di nuovo a giugno, nello stesso posto.