Due ore e quaranta minuti. Quasi non ci credi, quando vedi – su una delle solite piattaforme di streaming – la durata complessiva dell’album appena uscito di Laurent Garnier, “33 Tours Et Puis S’en Vont” (da ora in avanti “33 Tours”: perché è chilometrico anche il titolo, peraltro nato probabilmente da una reference precisa). Due ore e quaranta. Probabilmente il formato-album non morirà mai, nonostante i proclami dei vari nuovisti ed ipercontemporaneisti futuro-entusiasti, quelli che dicono che l’album è morto e ormai bisogna solo lavorare sfornando singoli a getto continuo (così il fatturato di Daniel Ek e sodali s’impenna); troppo importante e troppo ancora percepito come vera prova del fuoco artistica, per scomparire. Anche dalle giovani generazioni, anche dai ventenni. Però: due ore e quaranta minuti. Laurent, ma che davvero?
Sì. Davvero. Due ore e quaranta minuti, per diciassette tracce, tutte dalla durata media sui nove, dieci minuti. E non è solo questione numerica. È questione che questo album ha bisogno di tempo. Ha bisogno del nostro tempo, e pretende la nostra attenzione emotiva. Non regge un ascolto impaziente: non regge l’ascolto del dj che orecchia le tracce a spizzichi e bocconi per capire se c’è il “suono giusto” per i dancefloor di competenza, non regge l’ascolto dell’ascoltatore normale che ad un brano ormai dedica tre minuti e mezzo (se è tanto), e ad un disco un’ora scarsa, anzi meno, perché comunque ti viene da saltare gli episodi più deboli. “33 Tours” è talmente vasto e sconfinato che si ti approcci a lui esattamente come ti stai approcciando ai dischi nell’ultimo decennio, non sai da che parte prenderlo. Non capisci nemmeno se è bello o brutto: pensi solo che è ”troppo”, e sospendi il giudizio.
Ma ad un ascolto invece attento? Ad un ascolto paziente? Ad un ascolto in cui ti prendi veramente tre ore della tua vita, ti sconnetti dal resto e decidi di abbandonarti ad un estesissimo discorso sonoro in diciassette (diciassette!) lunghissimi atti?
Una prima cosa da dire è che, nonostante lo statement imponente della lunghezza, “33 Tours” è forse in assoluto l’album più umile e semplice mai fatto da Laurent Garnier. I tentativi passati di costruire opere complesse e sfaccettate, quasi teatrali, come “The Cloud Making Machine” e in parte “Tales Of A Kleptomaniac”, che dovevano rappresentare un’ascesa verso lo status di compositore a trecentosessanta gradi e non più semplice spingitore di killer track da dancefloor (per quanto arty, vedi anche la cura nei video storici), è archiviato. Ma archiviato proprio in pieno. Ogni velleità di inventare qualcosa di inusuale, di percorrere strade wannabe inedite, è accantonata. “33 Tours” è un neo-classico monumento canoviano al suono-di-Garnier par excellence, ovvero quella tech-house-tranceggiante tra l’atmosferico, il cupo e l’avvolgente che non ha mai voluto cedere alla secchezza ingegneristica minimal gonfiata di frequenze e non si è nemmeno mai abbandonata alla techno crassa, muscolare e berghainiana, restando così a metà del guado, lavorando con armi demodé – da secolo scorso, davvero – come armonia, crescendo strutturali e in certi passaggi addirittura melodia, o un satanico swing jazzy e digitale.
Quando aveva forgiato questo suono, negli anni ’90, era unico. Riproporlo trent’anni dopo continua a renderlo unico, perché lo è, lo è ancora adesso, ma senza più l’effetto-novità. Garnier ha deciso, con questo album, di rifugiarsi nelle sue certezze.
Ora: si può discutere se l’ha fatto come scelta di campo precisa ed intenzionale, o perché semplicemente non ha (più) nuove idee da mettere in campo per raccontare come dovrebbe essere secondo lui la musica da dancefloor nel 2023. Difficile saperlo. Più facile chiedersi: ma merita? Funziona? È fatto bene, al di là del fatto che è una ricetta ormai collaudatissima fin dai primi anni ‘90 ed è al 100% riconoscibile come sua?
Funziona. Sì, funziona. Non raggiunge forse vette d’eccellenza, ecco. Con l’eccezione magari di “Tales From The Real World”, “In Your Phase” e “Granulator Bordelum”, che sono per vari motivi all’altezza dei grandi classici garneriani, il resto dell’album veleggia solidamente ad altezze buone e consistenti, però forse manca di un certo qual killer instinct che renda il tutto epico, velenoso, indimenticabile. Racconta semmai di un artista che in modo sereno ha fatto pace con se stesso, che in modo sereno vuole far vedere che comunque è bravo ed ancora ambizioso (quasi tutti i brani hanno dei crescendo notevoli, altro che “Metti il loop, togli il basso, metti il basso, mani in aria, svisata di tastierone, riprendi il loop”), che in modo sereno ha deciso che è troppo innamorato dei dancefloor, anzi, di un dancefloor ben preciso, dancefloor che vuole un certo tipo di attitudine: più mentale che drogata, più “treno” autistico che fighettodromo in cui farsi vedere, più omaggiante lo sci-fi detrotiano vintage vero ed autentico che il balearico circolochesco fashionista odierno che piace alla gente che piace.
Occhio. Non siamo dei passatisti per forza. Non è vero che se ti rifai ad Underground Resistance vinci per forza e sei uno giusto, e se ti rifai a Michael Bibi ed Enrico Sangiuliano (che peraltro sono dei caposcuola, in modi diversi) perdi per forza e sei una merda. Troviamo anzi molto stupide e (post) adolescenziali queste visioni polarizzate aprioristiche, che spesso nascono da motivi extramusicali e molto semmai egoriferiti e personali; molto stupide perché perdono di vista una domanda fondamentale, ovvero – è roba fatta bene o no? Se Garnier in modo esplicito si rifacesse agli anni d’oro di Detroit, tra UR e Red Planet e basta, aggiungendoci una spruzzata di french touch arty ed elegante e stop, non è che per forza faremmo il tifo per lui; per quanto UR, lo spin off Red Planet qui li si ami, e i momenti migliori del franch touch pure. In Garnier tuttavia brucia ancora quella fiamma – che vediamo ad esempio bruciare negli ultimi Bicep – di una musica elettronica che sia elaborata e mentale al tempo stesso, che parta sì dai grandi classici ma non si arrenda ad esserne una copia didascalica, che sia efficace ed emozionale sui dancefloor ma regga anche un ascolto casalingo sdraiati in poltrona armati di cuffie ed introspezione.
È questa fiamma che gli permette di essere ancora nel top del top, universalmente rispettato dopo una carriera più che trentennale, e che lo rende decisamente uno dei dj più credibili e vivi della vecchia generazione, quella forgiata con l’acid house originario. È un highlander, come lo sono Carl Cox o Sven Väth; e in “33 Tours”, esattamente come questi ultimi due fanno da tempo, ha deciso di arrendersi al lato più ovvio di se stesso. Ma mentre Cox e Väth ormai raramente si avventurano sul terreno della produzione, che costa impegno, fatica, nervi, frustrazione, Garnier ti sbatte davanti un album da due ore e quaranta minuti, che peraltro arriva dopo tutta una serie di ottimi EP o tracce singole. Un workaholic, Laurent.
Ecco. Se c’è una cosa negativa da dire, è che forse in “33 Tours” non c’è nessuna “Jacques In The Box”, che è un capolavoro assoluto; o meglio, rientrano in quella categoria le tracce già citate un po’ di righe più sopra, quelle che dicevamo essere all’altezza dei grandi classici, quindi sì, ci sono le nuove “Jacques In The Box”, ok, ma diluite in un mare di altra musica un po’ si perdono, sono meno impattanti. Però capiamo lo sforzo titanico e generoso di Garnier di ristabilire il valore e l’importanza del tempo, l’importanza dell’ascolto in cui ti abbandoni e ti stacchi per forza dal mondo, l’importanza di una esperienza psichedelica che sia lunga ore su ore e vada ad ondate, piuttosto che la dissociazione piatta da k-hole e l’instant satisfaction della sniffata veloce (…e non è solo questione di droghe spicciole, attenzione: è questione di capire come è nata, come si è evoluta e dove sta invece andando ora la club culture). Garnier ha calcato veramente tanto la mano su questa componente “diversa”. A costo di fare un disco estenuantemente infinito. A costo di fare un disco dove, per non soccombere e non fare passi troppo lunghi rispetto alla gamba, decide infine di rifugiarsi solo ed unicamente in quello che da producer sa fare meglio e fa fin dagli esordi. Fin dalle “Acid Eiffel”.
È una scelta di campo precisa, volendo anche conservativa. È un volersi mettere in un mondo e in un modo di fare e vivere il clubbing che oggi, in epoche di Instagram, TikTok e viralità istantanea, pare quasi archeologia. Abbiamo l’impressione che Garnier sia pienamente consapevole di mettersi in una posizione definitivamente di minoranza e di residuale resistenza, in questo modo; e pensiamo anche che si sia pacificato con questa prospettiva, mentre venti o anche solo dieci anni fa non l’avrebbe accettata, o almeno – non l’avrebbe accettata senza combattere ed incazzarsi, senza sbuffare ed innvervosirsi.
È un lavoro intenso ma sereno, “33 Tours”; è una cavalcata che ha momenti cupi ed inquietudini, ma che alla fine ti fa capire che ti condurrà sempre al traguardo ed al finale più atteso. Ha dei momenti di una bellezza sfolgorante (per scelte di suono, di armonia, di struttura) ed altri invece un po’ “seduti”, un po’ troppo da fantascienza didascalica. Ha però coraggio. Ha personalità. Ha orgoglio. Ha identità.
…e queste sono caratteristiche che vorremmo sempre nel nostro mondo, e nel mondo del clubbing. Un mondo che invece sempre più spesso, negli ultimi due decenni, baratta queste qualità in cambio dei fatturati, dell’edonismo degli addetti al settore e degli introdotti/imbucati, diventando alla fine dei conti più una scusa per certificare status symbol aspirazionali che una reale ed incondizionata esperienza emotiva e plurisensoriale. E quindi, per l’ennesima volta: grazie, Laurent.
Grazie per queste quasi tre ore di – e l’hashtag l’abbiamo visto proprio sui tuoi social, non lo stiamo coniando noi – #uncontemporarytechno. Non è un valore in sé, la “uncontemporary techno”: ma con questo stile, con queste intenzioni, con questa classe, con questa intensità, è ancora un dono prezioso. Maledettamente, meravigliosamente prezioso.