Di fronte a Graham Massey e agli 808 State, beh, bisognerebbe semplicemente stare sull’attenti. Per sempre. O, al contrario, bisognerebbe abbandonarsi alla bellezza della loro musica: certo, “Pacific State”, uno dei brani più magici ed iconici che siano mai stati creati dalla musica elettronica, quello che citano tutti. Ma il successo assurdo di quel brano ha in qualche modo oscurato poi altre vette altissime che hanno sempre raggiunto. E’ che ad un certo punto non era più “di moda” parlare di loro. Ma sapete che c’è? Vaffanculo alle mode (…e scusate il francese). Perché il dato di fatto è che 808 State significa aver lavorato con una classe, una complessità ed una inventiva semplicemente pazzesche sui canovacci acid house, facendoli diventare “adulti”, portandoli a confrontarsi col jazz, con la world music, col pop più stralunato ed assurdo (non a caso c’è molto Graham Massey nella primissima Björk), con la musica colta contemporanea, col funk e il post-punk. Per qualcuno gli 808 State sono giusto un ricordo della magica stagione dei rave e dell’acid house che arrivava a “Top Of The Pops”, in realtà anche quando sono stati abbandonati come “desueti” dai media mainstream non hanno mai smesso di fare musica, mai smesso di fare concerti. Anzi: mai smesso di fare grande musica (recuperatevi “Outpost Transmission”, disco passato maledettamente sotto silenzio ma capolavoro vero al pari di altri momento più noti e celebrati della loro discografia), mai smesso di fare ottimi concerti (dove non ci sono uno o due tizi dietro ad uno schermo, ma c’è una full live band con musicisti, arrangiamenti speciali, carica “fisica” coinvolgente). E’ che Graham Massey non ha mai avuto il talento – e nemmeno sentito la necessità – di stare nei “giri giusti”.
Ma chi ha cultura, orecchie, conoscenze, consapevolezza, sa. Ora poi, dopo un silenzio discografico lungo diciassette anni, c’è all’improvviso un nuovo album: anche sorprendente, spiazzante, perché apparentemente riprende il suono degli 808 State di fine anni ’80 (quindi ancora prima di “Pacific State”), e tra l’altro su esplicita volontà di Massey è stato registrato fra le mura degli studi di Granada Tv, e se avete visto “24 Hour Party People” avete capito cosa intendiamo. Ma non è un disco che guarda al passato. Zero. Suono ancora molto come il futuro. Nella tradizione migliore “futurista” della musica elettronica. Di tutto questo – e di altro ancora – abbiamo parlato con Graham Massey. Un onore. E anche un grande piacere. Soprattutto, grandi applausi vanno fatti a roBOt Festival, che appena saputo del disco nuovo in arrivo dopo il lungo silenzio ha deciso di mettere fra gli headliner dell’edizione 2019 del festival proprio Massey e soci, impreziosendo definitivamente una line up che, come già detto in altri nostri articoli, è davvero fra le migliori, più intelligenti, meglio assemblate da anni a questa parte in italia
Ha senso considerare “Transmission Suite” come un “nuovo inizio”? Te lo chiedo perché sotto molti punti di vista trovo che riporti al vostro primissimo materiale…
E’ una sensazione che posso capire al cento per cento, non ti biasimo assolutamente per questo. Ma se devo risponderti sinceramente, la situazione per me è diversa: questo album è semplicemente la continuazione di un percorso lungo quarant’anni. Certo, è innegabile sia un album che segna un ritorno ad una “palette” di suoni molto più elettronica, questo come prodotto finale, ma quello che non sai – e che non potevi sapere – che il risultato finale è solo una parte del materiale che è stato effettivamente registrato. Di tre ore totali, abbiamo ridotto a un’ora. L’identità complessiva del materiale prodotto era diversa, quello che è arrivato fino a voi nell’album fatto e finito è un concentrato, ed è un concentrato solo parziale. Il criterio di scelta, per questa “riduzione finale”, è stato in effetti quello di andare a cercare le tracce dal suono più puramente elettronico. E sì, è vero: ci sono alcune macchine che erano state usate per le primissime release degli 808 State, lo confesso. Ma credo che la musica vada in una direzione diversa, meno legata all’archetipo dell’acid house che invece all’epoca regnava ed era la stella polare per noi. Sono abbastanza convinto che “Transmission Suite” sia un album che poteva essere fatto solo oggi, e che all’epoca non ci sarebbe mai venuto fuori così.
Quanto tempo ci avete messo per completarlo?
Due anni circa, anche se in effetti alcune tracce sono state composte ancora prima di questo lasso di tempo. Una questione decisiva è stato volerlo registrare nei vecchi studi di Granada Tv, trasformandoli nel nostro studio di registrazione, cosa che ha comportato anche avere a che fare con tutta una serie di complicazione logistiche. Lo spazio dove stavamo noi come studio vero e proprio era super, davvero un posto capace di ispirarti, ma se si trattava di mixare – ecco, non andava bene. Abbiamo allora dovuto trasferirci per il mixaggio in un altro spazio. Ed è stato in quella fase del processo che abbiamo tagliato due terzi di quanto era stato registrato. Spero che il paio d’ore di musica che sono state escluse dalla release finale prima o poi vedano la luce.
Ma l’elettronica in generale, oggi, è secondo te ancora qualcosa rivolto verso il futuro, qualcosa che parla “al” futuro e “del” futuro?
La musica elettronica è un linguaggio ancora in evoluzione, ma per un motivo molto semplice: perché è sempre in evoluzione anche la tecnologia. Poi non sempre ce ne rendiamo conto, perché ci sono sempre delle fasi in cui i producer entrano in una fase in cui si divertono e basta con quello che hanno già in mano, vogliono sfruttare formule certe finché vedono che durano. Poi guarda, dipende anche dal contesto: ci sono comunità dove si sta in una fase di profonda ricerca ed evoluzione ed altre più statiche, per poi scambiarsi i ruoli poco tempo più in là. In questo momento, trovo che la musica elettronica più interessante stia venendo fuori da Africa e Sud America. L’afflato “futurista”, che è stato abbracciato soprattutto dall’Europa, è una bellissima tradizione, e non è comunque facile portarlo avanti. Noi 808 State proviamo a farlo, da sempre: in qualsiasi passaggio della nostra discografia, credo tu possa cogliere più di un momento di “ottimismo utopico”, uno sguardo fiducioso rivolto in avanti. Vale anche per “Transmission Suite”, eccome. Anche se qui, come del resto sempre in passato, c’è sempre una parte “oscura” che serve a fare da bilanciamento. Componente che non fai molta fatica a tirare fuori, vedendo quello che sta succedendo in questo periodo lì da noi in Gran Bretagna… Insomma, per noi la musica è un alternarsi di luci ed ombre. Da sempre. “Transmission Suite” non fa eccezione.
(“Transmission Suite”, nella sua essenziale bellezza; continua sotto)
Qual è il tuo ricordo migliore e quale invece quello peggiore della prima parte degli 808 State, quella più sotto i riflettori, diciamo da “90” a “Don Solaris”?
Oh, ce ne sono tantissimi. Metterò insieme due cose che sono accadute nel 1991. Allora: a poche ore dalla parenza per il nostro primo, primissimo tour americano la sera mi squilla il telefono, era Martin Price (uno dei co-fondatori degli 808 State, NdI) che mi diceva che no, lui non sarebbe partito con noi. Panico. Abbiamo fatto di tutto per provare a fargli cambiare idea, in quelle poche ore, ma evidentemente nella sua testa la decisione era già presa ed era irremovibile. Non ti posso dire che la prendemmo bene: avevamo fatto così tanta fatica per emergere e ora che potevamo finalmente portare la nostra musica in giro per il mondo lui si tirava indietro mettendoci nei guai tutti noi, e la cosa ci pareva davvero senza senso. Martin, in fondo, voleva fare una cosa molto “rock’n’roll”, molto “Vaffanculo, faccio le cose a modo mio, non come dovrebbero essere fatte”; non è che volesse lasciare il gruppo, attenzione, diceva solo che non si sarebbe esibito dal vivo, voleva dedicarsi solo al lavoro da studio, lontano dai riflettori. Ma pensa al resto di noi: biglietti aerei già presi, a poche ore dalla partenza, date già fissate. Partimmo comunque. E le settimane successive, spese a girare e suonare per un pubblico aperto, entusiasta, curioso, fu uno dei periodi più belli della nostra vita. Se fai il musicista, vivi per questo: poter incontrare gente dalla bella mentalità, che ha voglia di sentire quello che fai e che ci tiene ad accoglierti nel modo migliore possibile, che ti fa sentire parte di una comunità più vasta, transnazionale. Lì ho capito che gli 808 State non sarebbero mai e poi mai dovuti essere solo una band da studio. La dimensione live sarebbe rimasta semplicemente essenziale, irrinunciabile.
A diciassette anni dall’ultimo album da studio, immagino che comunque un po’ di pressione ve la siate messa addosso – anche solo magari per il modo in cui i media vi avrebbero accolti (o non accolti).
Hai presente l’espressione “message in a bottle”?
Certo, la usiamo anche in Italia.
Ecco, fare musica oggi è un po’ così. La fai, la metti in giro, speri che qualcuno la ascolterà. Ma non puoi avere nessuna certezza. Ogni mese ci sono migliaia, anzi, forse milioni di tracce nuove. E di queste, molte sono di musica elettronica, quindi insomma ricadono nella categoria di quello che facciamo noi. Da parte mia, posso dire che c’è una cosa che non ci può togliere nessuno e di cui sono sinceramente orgoglioso: la nostra storia, e il fatto che anche solo semplicemente andando avanti noi continuiamo a celebrarla e a renderle onore. Ma sono anche realista: ai tempi dei nostri primi album, i venti/venticinquenni di oggi non erano nemmeno nati. Quindi sì, siamo consapevoli che per noi questo è per certi versi un nuovo inizio, un inizio da zero. Dicevi dei media, no?
Esatto.
Allora: mi sembra che il panorama dell’informazione oggi sia molto più frammentato rispetto al passato, non vedo tantissimi fonti “certe” di autorevolezza soprattutto per il tipo di musica che facciamo noi. In questo panorama più complesso e frastagliato, un sacco di informazione si perde, e anche se fai qualcosa di interessante può accadere che venga non riconosciuto, o riconosciuto solo dopo molti anni. Non è un problema: c’è sempre la dimensione del vivo. Un altro motivo per amarla, infatti, è che lì la reazione a quello che fai arriva immediata. Diretta, senza mediazioni, senza eccezioni. Poi è divertente vedere, ai nostri concerti, tre generazioni diverse fra il pubblico.
Vorrei chiederti infine se ci sono dei colleghi che stimi particolarmente.
Mark Pritchard è sempre stato un musicista che ho amato. E’ in giro da quando eravamo in giro noi: ha iniziato insieme ad Aphex, ha fondato il progetto Global Communication più o meno quando noi iniziavamo ad esplodere, quindi ecco, non è certo uno di primo pelo. Ma quello che ha fatto nell’ultimo decennio è fantastico: la sua capacità di “leggere” e reinventare – a modo suo – il suono dell’undeground elettronico anglosassone lo trovo eccezionale. E’ in grado di prendere il suono della strada e di “raffinarlo”, portandolo a grandi livelli di astrazione ed eleganza. Abbiamo davvero bisogno di questo tipo di approccio.
(Un grande ritorno, con anche un packaging di lusso – occhio alla foto “aerea” della postazione di Massey)