Dopo i titoli di coda, quando tutti gli altri si alzano e abbandonano la sala, io ho ancora voglia di rimanere seduto sulla mia poltroncina. Non c’è l’amaro in bocca ma quasi una totale soddisfazione che da tempo non riuscivo a gustare. Ripenso alla trama e mi rendo conto che l’edizione 2011 di MIT è entrata definitivamente nella mia classifica personale dei festival più belli di sempre.
Non c’era dubbio che il primo giorno fosse dedicato interamente a Bobby Gillespie e compagni, differentemente da quanto mi aspettavo c’era però davvero poca gente a supportare i Primal Scream. Questo è davvero un peccato, soprattutto perché un Jamiroquai qualsiasi te lo puoi sentire ogni anno, “Screamadelica” se sei fortunato ogni venti. Peggio per chi non c’era, io non ho mai visto un concerto finire con l’invasione (pacifica) di “campo”. Un applauso speciale anche ad Andrew Hung e al suo dj set d’apertura per niente timido. Fanculo ai perbenismi, lui il suo set l’ha fatto incondizionatamente anche alle 19.30, che non si dica che è orario da apertura che a lui non gliene poteva fregare di meno. Quando dalle sue casse è uscita “Moth” del duo Burial & Four Tet sono scappato, commosso.
Mentre ti ritrovi in Cavea respiri un’aria surreale, anche perché sei chiuso dentro ad una delle location più belle d’Italia, circondato da palazzi che sembrano astronavi e stage che per soffitto hanno il cielo di Roma o l’ingegno di uno come Renzo Piano. MIT profuma di internazionalità, tant’è che tra turisti e appassionati di ogni tipo mi ritrovo Willem Dafoe in fila per ritirare i propri biglietti. Ma non c’è solo questo. E’ difficile non essere ingordi quando ti trovi in mano un programma stilato quasi alla perfezione, quando ti rendi conto che il tuo percorso musicale è segnato e che davanti a te non hai ostacoli. I minuti si incastrano perfettamente e l’unico intoppo per assistere alla performance del tuo artista preferito è la fila che si crea per raggiungere la sala in cui si esibirà, ma d’altronde siamo in un auditorium, non in un capannone qualsiasi.
La seconda giornata di MIT, quella un pochino più dance oriented inizia “presto”, soprattutto per chi è abituato ad altri eventi nostrani. Alle 20.30 mi ritrovo già catapultato in mezzo a quattro stage e la scelta non è per niente facile. Decido di puntare sul norvegese Todd Terje e mi ritrovo al suo posto Gadi Mizrahi (con cui ha scambiato posizione in lineup), dalle sue casse sento uscire Snoop Dog, Outkast e Metronomy fino a quando trovano spazio anche i Tale Of Us. Per quanto la selezione fosse affascinante e di tutto rispetto, in contemporanea c’era Gold Panda nel Teatro Studio. Riesco a raggiungerlo poco prima che la sala fosse al completo, proprio mentre iniziano a salire le note e la voce di “You”. La sala è in delirio, in contrapposizione con i paesaggi calmi e orientali che passano alle spalle del ragazzo incappucciato. Decido di rimanere, la curiosità di sentire le Cocorosie è tanta, ma non pari alla goduria per lo spettacolo di Derwin Panda.
Alle 21.30 è già tempo di techno e il dj set che mi aspetta in Cavea è da gustare interamente. I Modeselektor scendono in campo in assetto live 909, quello da battaglia e fuochi d’artificio per intenderci. Tra un duetto sulle note di “Dull Flame Of Desire” e la voce di Paul St. Hillaire su “Let Your Love Grow” i ragazzi si confermano protagonisti assoluti del festival. La gente è in delirio, sugli spalti ma anche in tribuna ed infatti è pienamente ripagata la scelta di non far esibire nessuno nelle altre sale durante il set dei due berlinesi. Dopo un’ora Gernot Bronsert e Sebastian Szary lasciano il palco ad Apparat e la sua band. Tutto piuttosto suggestivo, sul palco sono in quattro e la voce del frontman è accompagnata da piccole scintille di luce, ma l’unico sussulto che riesce a provacarmi è quando intona “Arcadia”. Per questo decido di scappare e pianificare la seconda parte della serata. Voglio tenermi un ricordo diverso di Apparat e quello che vedo sul palco non mi sta piacendo affatto. Sono solo le 23.30, incredibile.
Come vi dicevo nel Foyer Sinopoli Todd Terje (pronunciato todd terry e non todd tershe, possibile che in molti non abbiano capito il suo umorismo norvegese? ahah…) mette i dischi al posto del mezzo Wolf+Lamb che si era esibito precedentemente. Peccato, perché in contemporanea iniziavano nella Sala Sinopoli gli Stateless. Decido quindi di dedicare del tempo a tutti e due e di abbandonare sul più bello Terje per assicurarmi (considerando il tappo che si era creato precedentemente) un posticino di rispetto per sentire Nicolas Jaar nel Teatro Studio.
Sul palco salgono in quattro, come Apparat & co, ma la differenza è davvero notevole. Il live proposto è quello del Sonar, quello che già Damir aveva descritto perfettamente qui. Decido di abbandonare la sala e raggiungere degli amici per il concerto di Lamb per poi chiudere in bellezza la serata con l’esibizione dei “misteriosi” Tiger & Woods applauditi dallo stesso Todd Terje e dall’amico Prins Thomas che aspettava il suo turno mentre ballava le varie chicche di “Through The Green”.
Alla fine la seconda edizione di MIT è stata tanta roba. E credo di non essere l’unico a pensarlo. Se il pubblico rispondesse così ad ogni iniziativa, o forse d’altra parte se ogni iniziativa fosse organizzata in questo modo e avesse una proposta artistica di questo livello non ci sarebbero malumori, non ci sarebbero storie per i prezzi troppo alti o situazioni da guerra civile. In questa due giorni non ho visto una transenna. Non ho sentito nessuno lamentarsi per il costo del biglietto o per il fatto che alle 20.30 il festival fosse già in piena. E allora la domanda è davvero facile: è davvero solo il pubblico che deve cambiare mentalità o sono anche gli organizzatori a dover alzare gli standard di ciò che propongono?