Quando affronto questo tipo di tematiche parto sempre un po’ prevenuto, lo ammetto. Non sono nuovo a discussione con i “rockettari” di turno, nonostante ultimamente i confronti con mio padre siano drasticamente diminuiti (che c’abbia messo una pietra sopra?), perché proprio non sopporto la supponenza con cui riescono a dividere la musica a detta loro “erudita” da quella elettronica (per noi poveracci). No, perdonatemi ma non ci sto e non solo perché non ho mai sopportato chi costruisce barriere e limita le capacità espressive, ma soprattutto perché fondamentalmente la musica pop e la musica rock mi annoiano. Per favore scusatemi se tutto questo potrà sembrarvi una bestemmia, non sia mai che qualcuno si possa sentire offeso, ma per quanto mi riguarda è la nuda e cruda verità. “Sticazzi”, direte voi, ma dall’alto della mia ignoranza, stringendo tra le mani “Duo”, album che porta la firma di Bugge Wesseltoft e Henrik Schwarz , mi prendo la mia piccola rivincita. Sia chiaro, quando parliamo di musica (o di arte in generale) non esistono né vincitori né vinti, ma se i perbenisti del chitarra-basso-batteria si prendessero la briga di concedere il beneficio del dubbio a prodotti come questo, probabilmente gli ultimi dieci anni di musica rock sarebbero stati animati da ben altro fermento.
Salme a parte, torniamo a “Duo”, piccolo grande capolavoro di techno-jazz costruito e pensato sull’asse Porsgrunn-Berlino per poi essere testato, vissuto e rodato in alcune delle ressegne più importanti del mondo, Montreux Jazz Festival su tutti. Il curriculum dei protagonisti, in fondo in fondo, parla chiarissimo: se da un lato troviamo Bugge Wesseltoft, jazzista norvegese non nuovo a comparsate nel campo della musica elettronica avendo già affiancato Laurent Garnier nella registrazione di “The Man With The Red Face”, dall’altro c’è quel genio della musica techno che risponde al nome di Henrik Schwarz.
Il concept di “Duo” è semplicissimo, ovvio oserei dire: Wesseltoft al piano e Schwarz alle macchine (drum e synth) creano un flusso suonoro che fa vibrare anima e cuore per tutti i cinquantaquattro minuti dell’album, per tutte e otto le tracce. “Dreaming” e “Leave My Head Alone Brain”, in particolare, sono viaggi che ti entrano dentro e camminano sotto pelle. “Leave My Head Alone Brain”, infatti, con i suoi intrecci di melodie combinati a un synth-basso che non ha nulla da invidiare a quanto siamo abituati ad ascoltare nei nostri amati dancefloor, ha un’intensità sorprendente.
“Where Is The Edge”, con il suo beat più deciso, pulsa che è un piacere neanche avesse l’obiettivo di farci ballare; il synth che si inacidisce fa il resto, sposandosi a meraviglia sia con la linea percussiva (che non eccede mai) che con il piano di Wesseltoft. “One One (Live from Cologne)”, è la traccia che chiude l’album: qui è l’astrattismo di Schwarz a dettar legge catapultandoci in uno spazio edificato e modulato sotto i colpi dei sui sintetizzatori.
“Duo” è una piccola perla, speriamo solo non ci vogliano dieci anni affinché venga davvero capito…io intanto me lo riascolto!