“Mah, c’è un po’ tanto Hawtin in questo Plastikman…”: in mezzo a un mare di persone sui vent’anni e passa, qualche vecchio accigliato baluardo che i primi anni ’90 ha fatto in tempo a viverli – con consapevolezza – non manca. E lo vedi, che ha l’aria perplessa; se ti ci metti a parlare te lo dice pure, appunto. Poi però quando partono le tracce più storiche il viso si illumina e, ci giureresti, scendono quasi lacrimoni. Eh.
E’ davvero bizzarra, la spaccatura che si è creata nel tempo sulle identità artistiche di Richie Hawtin e sul modo in cui viene percepito e fruito dal pubblico. Il successo del canadese trapiantato a Berlino è enorme ora, il seguito che si tira dietro è gigantesco; questo seguito in qualche modo “percepisce” il carisma hawtiniano, sì, ma non sa da dove arriva. Chi invece sa da dove arriva, fa fatica a sopportare l’Hawtin attuale, che si è ridirezionato su ricette molto collaudate, molto efficaci, molto commerciali – difficile definire in altro modo quasi tutti i suoi dj set che abbiamo sentito negli ultimi anni, con la routine del “metti il basso / togli il basso / rimetti il basso / boato della gente” che è diventata ormai una messa cantata. Una messa anche divertente, ok, ma che non ha bisogno di troppo impegno mentale per seguirla. Minimal mediamente facile, con la cassa in quattro a rassicurare le genti festanti. Olé.
Plastikman invece è altra faccenda. Chi c’era all’epoca ha ancora il ricordo di quanto diavolo fosse sconvolgente quella cosa: lì essere minimali era veramente una sfida, accidenti. Un inno ad una feroce ed ipnotica claustrofobia, un portare il verbo techno a confini estremi, per quanto scarnificati. Non una musica in cui far festa, insomma, ma una musica in cui perdersi. Non una faccenda da boati e mani in aria, ma qualcosa da gustarsi con introversione mescolando dentro di sé angoscia e psichedelici piaceri. Che tutto questo sia poco digeribile dal pubblico dell’Hawtin attuale non lo diciamo noi, lo dicono i fischi (isolati) e i borbottii (meno isolati) e l’entusiasmo solo moderato (diffuso) che accolsero le prime messe in atto del Plastikman 1.0, vedi Time Warp e Dissonanze.
Tuttavia però siamo sicuri che Richie, che è senz’altro una persona profondamente lucida ed intelligente, sia consapevole di come le radici del suo successo attuale vadano cercate proprio nell’Hawtin più “difficile”. Sa che le folle di oggi lo adorano perché in parte ne apprezzano la musica, ma in parte sanno di avere di fronte un mito (lui ci marcia sopra, con consapevolezza, come si può capire anche dalle risposte che ha dato a noi di Soundwall) ed è un mito che si creato anche e soprattutto con Plastikman. Con grande onestà nei confronti di se stesso, vuole (ri)portare in giro questa sua identità artistica. Pagarle un tributo.
L’1.0 appunto era ancora acerbo (soprattutto per i gusti dei pubblici suoi attuali), l’1.5 visto qualche giorno fa a Torino cambia abbastanza poco, ma quel poco fa la differenza: meno pause, più compattezza nel corpus sonoro e nel dipanarsi delle tracce, visuals notevolmente migliorati (e davvero di una potenza pazzesca, con la gabbia di led che lo avvolge che davvero ti porta in un’altra dimensione). Il risultato? Il giusto equilibrio. Alla fine sono stati bene tutti. I più giovani e più in cerca di festa, che hanno avuto modo di “capire” il sapore di Plastikman senza doversi per forza scontrare con cerebralismi che non sono nelle loro corde, i vecchi rompicoglioni che comunque hanno potuto risentire pezzi che per loro sono storia interiore con un audio e un apparato visuale davvero spettacolare, e se dici che non è stato un evento bellissimo allora stai mentendo perché vuoi fare lo snob che non si confonde coi truzzi.
Per il resto della serata, Marco Carola ha raccolto boati suonando bene, festaiolo ma energico e mai troppo cheap o scontato; Magda ha provato a infilare un po’ delle cose che vorrebbe fare adesso, più funky e quasi disco nell’essere techno, ma ad un certo punto ha ceduto vedendo reazioni non troppo calorose e ha infilato un po’ di cavalli da battaglia minimal; Gaiser ha perso l’aereo. Ottima comunque l’organizzazione di Movement: splendido lo spazio dell’Oval, perfetto l’impianto, grande affluenza di pubblico gestita piuttosto bene. Il modo migliore per chiedere scusa per alcune pecche che, inutile nasconderselo, hanno inficiato le ultime due edizioni dei loro eventi di Halloween. Bravi, avanti così.