L’amore per la musica è amore a prima vista: possono passare decenni, ma tutta la poesia che si è vissuta durante l’ascolto di un disco, a questo saranno per sempre legate a filo doppio. Uno dei vanti che il panorama su cui la musica italiana può contare è quello di aver per decenni creato la colonna sonore della nostra vita, direttamente o indirettamente. Mi riferisco ai cantautori degli anni del dopo guerra, a quelli degli anni ’60 e ’70. Sì, quelle canzoni rimarranno per sempre, prova ne è che sono sempre riproposte e rivisitate in chiave moderna. Sono una scuola. Luca C & Brigante sono i neolaureati di quella scuola, promossi a pieni voti il cui ultimo lavoro, “Invisible Cities”, rappresenta una vera crescita professionale, sempre legata e sempre cara alle esperienze del passato. Siamo andati a conoscerli meglio e a scoprire da cosa nasce la passione per la musica degli anni che furono.
Partiamo un pò dall’inizio. Come e quando è nata la vostra collaborazione?
Luca ed io ci conoscemmo a Londra ad una festa nel 2009. Si parlo’ brevemente di fare qualcosa assieme ma poi per mesi, come spesso succede dopo aver parlato durante l’euforia notturna, non ne venne niente. Poi nel 2010 ci mettemmo finalmente in studio iniziando con l’idea di fare qualche edit – tra cui anche quello di Battisti. E da cosa nasce cosa…
Cosa vi ha spinti a spostarvi a Londra?
Dopo tanti anni a Ibiza a tempo pieno ebbi bisogno di un cambio di panorama ed in Europa la scelta fu tra Londra e Berlino: le due città con più opportunità nell’ambito della musica. Inoltre sono sempre stato infatuato con la musica inglese ed una breve permanenza a Londra alla fine degli anni 90 mi lascio’ la voglia di tornare.
Come potreste descrivere la cultura musicale italiana che si rivolge all’elettronica ed al mondo della club culture?
Non penso ci sia alcun dubbio che sia artisti che produttori italiani a partire dall’Italo-Disco degli anni ’70 abbiano avuto una forte influenza sulla club-culture mondiale. Penso sia stato particolarmente così nel 2011 con artisti come Clockwork, Tale Of Us e System Of Survival. Anche all’inizio degli anni ’90 ci fu un momento d’oro per l’house italiana. Quindi direi che nel nostro piccolo abbiamo sempre contato.
Siete sempre rimasti molto legati al panorama musicale italiano, tant’è che avete dedicato un paio di canzoni a dei e veri propri mostri sacri della musica italiana, Battisti e De Andrè in primis. Cosa vi piace di quei cantautori?
In particolar modo quelle due canzoni. Anche se entrambi di buona musica ne hanno scritta tanta. Luca poi quelle due canzoni le ha proprio nel cuore fin da bambino quando le ascoltava con suo padre.
Come definireste la vostra musica e cosa vi influenza? C’è qualche artista a cui vi ispirate?
Musicalmente abbiamo cercato fin dall’inizio di spaziare il più possibile. Forse per il nostro amore per la musica in generale – tutta la buona musica, quella piena di emozioni, quella che ti scalda dall’interno o che ti fa rizzare i peli sulla pelle. Di artisti a cui ci siamo ispirati fino ad ora ce ne sono tanti – nel caso di “Invisible Cities” direi che produzioni europee a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 e un misto di artisti classici come Fleetwood Mac, Tangerine Dream, Mike Oldfield e produttori elettronici come Connie Plank. Un mélange di folk, psichedelia, suoni analogici e malinconia da tramonto.
Assieme a voi collabora spesso Ali Love, straordinaria voce nota ai più per aver collaborato con The Chemical Brothers e Justice. Cosa vi ha spinti a lavorare assieme?
Luca ed Ali si conoscono da tanti anni e già scrivevano assieme quando abbiamo iniziato a lavorare su “Invisible Cities”. Oltre che una grande voce direi che Ali e’ uno straordinario autore e musicista. Collaborare con lui e’ sempre un piacere.
Il vostro ultimo EP, “Invisible Cities” è una magistrale prova delle vostre capacità. Come è nato questo album?
Grazie per i complimenti. Difficile a dirsi esattamente come sia nato l’album ma The Beach e’ stato sicuramente il pezzo che ci ha fatto realizzare di aver trovato un ‘sound’ nostro a cui valeva la pena dedicare del tempo. Sviluppare un album può essere un processo lungo e appannato. Quella canzone ha decisamente messo a fuoco la lente. Come sempre ci sono poi stati tanti altri fattori personali e sicuramente l’apporto dei vari collaboratori ha influito sul processo creativo. Sia Zeben Jameson e Findlay Brown hanno colto perfettamente quello che io, Luca ed Ali stavamo rincorrendo.
In canzoni come “On A Star”, le melodie che accompagnano la voce dimostrano una grandissima cura e dedizione nella scelta dei suoni e degli strumenti. Che tipo di attrezzatura usate in studio? E nelle rappresentazioni live nei club?
Lo studio ad Ibiza dove abbiamo scritto e prodotto la maggior parte di “Invisible Cities” non e’ certo all’avanguardia. Qualche synth noto (Juno – Sh 101 – Korg 700), una string machine russa e un paio di drum machine inizio anni ’80. I due strumenti che sono stati fondamentali pero’ sono sicuramente un pianoforte un po’ scordato degli anni ’30 che a quanto pare apparteneva alla famiglia reale spagnola e una chitarra acustica per bambini – anche lei perennemente scordata!