Dopo aver recensito la splendida release su Stroboscopic Artefacts “Monad VIII“, abbiamo pensato fosse il caso di incontrare questi due ragazzi e scambiare due chiacchiere con loro, che nel frattempo non si sono fermati, e stanno continuando a sfornare lavori sempre più interessanti confermando il loro grande spessore artistico. Loro sono Daniele Antezza e Giovanni Conti in arte “Dadub” duo che non solo fa parte del cuore pulsante della label di Luca Mortellaro ovvero Lucy, ma che si occupa anche di tutto il lato tecnico per quanto riguarda il suono, postproduzione e mastering, sia per la Stroboscopic stessa che per varie altre label. Devo dire in tutta sincerità, che oltre a due ottimi artisti, ho avuto il piacere di parlare con due ragazzi simpatici e disponibili, per nulla snob, aspetto che spesso in questo ambiente capita di riscontrare.
Allora ragazzi, benvenuti su Soundwall, diteci intanto chi siete e da dove venite, insomma due parole sul vostro passato e il vostro background artistico.
Daniele: Mi sono accostato al mondo della musica cominciando a suonare prima pianoforte e chitarra da bambino e poi batteria e percussioni, per poi dedicarmi a suoni più elettronici, perlopiù dub, ambient-drone e mid-tempo, passione sfociata con la nascita di Dadub e la relativa collaborazione (che continua tutt’ora) con la label irpina “A Quiet Bump”, fucina di grandi talenti, a mio avviso. Per quanto riguarda il discorso techno (o meglio, tekno) il mio primo incontro con questo genere è stato grazie alla scena rave italiana, quella dei free-party per intenderci. Ho seguito per anni anche la scena reggae-dub, ma non quella commerciale delle dance-hall (che di reggae ha ben poco ormai, se non dreadlocks alla moda), bensí la scena underground di chi spende tutte le proprie energie nella costruzione di un sound system per diffondere le vibes in levare. Sono stato comunque sempre affascinato dagli approcci sperimentali alla musica elettronica (dall’IDM alla musica concreta, ecc) cercando di tenere slegata la mia espressione artistica dai clichet di genere. Per me dub vuol dire “upsetting the rules”.
Giovanni: Anch’io ho cominciato con la batteria, ma nel tempo ho cominciato parallelamente ad utilizzare il computer per gestire il suono e scrivere le ritmiche, essendo attirato sempre di più dall’IDM e dalla musica ambient.
Più tardi a Siena durante gli anni dell’università ho dato vita ad un progetto con Ettore Bianconi (fratello di Francesco dei Baustelle) e Gianni Magini, organizzando serate in Toscana nei pochi spazi disponibili. Insieme lavoravamo ad una performance live tra IDM e breaks e Drum & Bass con due piattaforme Ableton sincronizzate ed un dj che ci accompagnava con scratch, campionatori e synth. Dopo qualche anno le nostre strade si sono divise: io ho iniziato ad occuparmi di di installazioni multimediali attraverso la programmazione, con Max MSP, di ambienti interattivi nei quali audio e video reagivano al movimento dei visitatori in tempo reale, e poi mi sono trasferito a Berlino, mentre Ettore e’ entrato a far parte dei Baustelle in via definitiva.
Come siete entrati in contatto con Lucy, e quale è stato il fattore scatenante che ha portato poi ad avere un ruolo indubbiamente molto rilevante all’interno della comunità artistica di Stroboscopic Artefacts?
Daniele: Io, Luca (Lucy) e Giovanni abbiamo studiato per anni nella stessa cittá. Io e Luca ci conoscevamo giá, mentre con Giovanni no, se non di vista. Ad ogni modo, dopo gli studi, ci si perse di vista, per poi ritrovarsi dopo qualche anno a Berlino, pochissimo tempo dopo il lancio ufficiale di Stroboscopic Artefacts. Quando io e Luca ci incontrammo ci venne subito in mente che avremmo potuto collaborare. Ai tempi la label era ancora pressoché sconosciuta e si trattava di una vera e propria scommessa. Il fatto che Luca stesse cercando di dare al progetto un taglio non prettamente dancefloor faceva proprio al caso mio, ed insieme a Giovanni abbiamo deciso di partecipare al progetto Stroboscopic Artefacts, prendendoci cura di postproduzione e mastering di ogni release dell’etichetta e contribuendo con le nostre produzioni sotto il nome di Dadub, trasformando di fatto il progetto in un vero e proprio duo.
Giovanni: Io ero già a Berlino da un po’, e tramite amicizie comuni mi sono ritrovato ad ospitare a casa Daniele nel primo periodo dopo il suo arrivo. Fu proprio in quei giorni che decidemmo di unire i nostri background tecnico-artistici e cominciare a produrre qualcosa di nuovo insieme, soprattutto a fronte del discorso che Daniele in quel periodo aveva aperto con Lucy.
Siete musicisti già da prima di entrare a far parte della scena techno, cosa vi ha fatto cambiare direzione? Cosa in particolare vi ha attirato del mondo del clubbing?
Giovanni: Sono a Berlino dalla fine del 2007, e se devo essere sincero, finchè non è cominciato il discorso di produzione con Daniele non mi sono mai avvicinato al clubbing, forse anche perché reduce di un’Italia che sotto questo punto di vista, a livello culturale sia delle proposte che del pubblico, non offriva granché. Quando poi questo è capitato, ho scoperto che qui a Berlino, come in molte altre città europee, è ancora possibile andare in un club e trovare gente che si trova lì per ascoltare la musica e condividere un’ energia. E’ proprio quel tipo di atmosfera e di sensazioni che molto spesso in Italia manca; ciò non toglie che anche quì è possibile trovare locali e club che soprattutto ultimamente hanno adottato una politica un po’ più business oriented, la tech house sta prendendo il sopravvento sulla techno e sulla musica elettronica in generale che ha reso famosa Berlino per la qualità delle produzioni dei decenni precedenti. Vedere che la label Mille Plateaux ha riaperto i battenti mi fa sperare che forse non finirà tutto a tarallucci e tech house, spero che nei prossimi mesi si risvegli un po’ l’interesse per tipi di musica meno allineati e commerciali: Berlino e’ una città’ viva e capace di cambiamenti rapidissimi, sia per il ricambio continuo di persone provenienti da tutto il mondo sia per la sua storia travagliata degli ultimi 50 anni, e questo si vale tanto per la vita quotidiana che per la formazione di tendenze e movimenti estetici applicati alla musica.
Daniele: Penso di poter confermare quello che ha appena detto Giovanni; la “club culture” in Italia non sempre si focalizza su di un discorso qualitativo, e questo, spessissimo, va a discapito poi dei contenuti che le varie serate offrono. Per me partecipare ai free-party era proprio un modo per non entrare in questi meccanismi distorti.
Parliamo della vostra emigrazione, che sicuramente avrà delle motivazioni di tipo artistico. Credo che comunque la sensibilità che si cela dietro all’animo di un artista, abbia inevitabilmente portato alla vostra attenzione tutta un’altra serie di, chiamiamoli stimoli, a lasciare questo paese. Mi sbaglio?
Diciamo che, e la cosa vale per entrambi, per tutta una serie di motivi, in Italia ci siamo sempre sentiti un po’ fuori posto. E’ facilissimo rendersi conto che, purtroppo, un paese come il nostro non offre, in generale, alcuna prospettiva decente per un giovane, soprattutto per chi vorrebbe fare dell’arte e della musica il proprio lavoro. Le prime esperienze lavorative in Italia, frustranti e degradanti per entrambi (soprattutto dopo anni di studi) sono state quindi lo stimolo ultimo a mollare tutto e cambiare aria. E’ anche una questione di come certe cose vengono concepite, di estensione degli orizzonti della realtà’; ad oggi ancora facciamo fatica in Italia a spiegare che mestiere facciamo qui, e che produrre musica e suonare può essere qualcosa in piu’ di un semplice hobby… basti pensare che in italia vige ancora il detto secondo cui “con l’arte e la cultura non si mangia”! C’é poi anche un aspetto politico molto forte che ci ha spinti a lasciare la penisola: stiamo vivendo un periodo estremamente reazionario e “lobbistico”. In altre parole, se non hai “amici” non sei nessuno. Ma a pagare il prezzo di questa condizione é soprattutto la libertá di espressione e la repressione delle energie dei giovani.
C’è un aspetto che non tutti conoscono dei Dadub, cioè l’attività che svolgete in parallelo principalmente per Stroboscopic, ma anche per altre realtà: il mastering e la post produzione. Qual’è il vostro approccio con questa disciplina?
Siamo fondamentalmente autodidatti per quanto riguarda mastering e postproduzione e questo, forse, ci tiene fuori da alcuni schemi e tecniche standardizzate molto comuni nel nostro mestiere. In questo modo riusciamo a concentrarci molto sul tirare fuori dai brani (nostri e di altri), quasi maieuticamente, quello che di comunicativo ed espressivo contengono. Usiamo una tecnica particolare e da molti tecnici forse poco utilizzata in maniera “creativa”, ma che secondo noi è molto efficace, in particolare per raggiungere i nostri scopi: il trattamento parallelo del segnale audio. L’esperienza di Giovanni in campo informatico e la sua confidenza con la tecnologia (è sui computers dall’età di 5 anni) ci permette di gestire senza troppa fatica sistemi anche molto complessi, il che, in fase di post-produzione, ci regala possibilità infinite di interpretare e valorizzare un pezzo. Cerchiamo di applicare al mastering lo stesso concetto che ci guida nella produzione, ovvero il cercare di privare la musica elettronica del carattere autoreferenziale di cui spesso è dotata, poiché nella maggior parte dei casi un pezzo di musica techno o puramente elettronica arriva solo a chi questo genere già piace e ne conosce ed accetta i canoni e limiti espressivi: noi cerchiamo di renderlo interessante per tutti, dando importanza agli elementi che contengono significanti musicali che possono essere apprezzati anche da chi solitamente non ascolta musica elettronica.
Quanto le vostre conoscenze tecniche in campo audio influiscono sul vostro lato creativo, sul modo di lavorare in fase di composizione, sul vostro suono e sulle vostre produzioni in generale?
La cosa ha senza ombra di dubbio i suoi vantaggi ma anche i suoi svantaggi: avendo infatti parecchie nozioni in campo audio possiamo avere un controllo diretto sul mix e “lavorare con il senno di poi”, nel senso che già in fase di produzione sappiamo come il suono si trasformerà in fase di mastering, e possiamo già applicare ai nostri lavori un discorso di trattamento acustico durante le prime fasi creative. Il che, però, spesso si traduce in un ostacolo, perché si rischia di soffermarsi troppo su dettagli magari insignificanti cercando di risolvere problematiche di natura puramente tecnica, bloccando o rallentando così il flusso creativo. Dobbiamo quindi spendere parecchie energie per non rimanere troppo incatenati alla tecnica fine a se stessa ed avere uno sguardo tecnicamente distaccato sulle nostre produzioni.
Viviamo un periodo di forte crisi, economica principalmente, ma senza dubbio si ripercuote sulla società e su tutto ciò che essa contiene, arte e forme d’espressione comprese. Qual’è la vostra opinione a riguardo?
Diciamo che, da un punto di vista prettamente artistico, dell’atto creativo, ciò potrebbe rappresentare uno stimolo in più. Parte delle pratiche ed espressioni artistiche spesso filtrano e rielaborano le tensioni sociali e gli umori di un periodo e li trasformano in nuovi linguaggi e tendenze estetiche, anticipando i canali di comunicazione sociali più canonici, la discussione sociopolitica e le tendenze commerciali. Noi per primi siamo profondamente influenzati nei nostri linguaggi artistici da tutto quello che sta accadendo. Il fatto di rifiutarci di essere etichettati sotto un genere ben definito rappresenta il nostro rifiuto di accettare un linguaggio canonico e omologante. Se di underground si tratta, sembra strano, ai nostri occhi, utilizzare linguaggi schematici e prestabiliti, un pó come se fossimo in un dominio commerciale. Dal punto di vista pratico di vita quotidiana, incide relativamente poco, almeno per noi: quando il tuo lavoro è esprimerti attraverso una forma d’arte, è comunque difficile “tirare avanti”, quindi crisi o non crisi viviamo del minimo indispensabile, anche per una critica verso il consumo sfrenato di risorse o dell’accumulazione avida e sterile delle stesse. Per quanto riguarda il mercato, sia dal punto di vista del pubblico sia da quello di chi organizza, potrebbe comunque avere un risvolto positivo, potrebbe forse essere un pretesto per puntare alla qualità piuttosto che alla quantita’, dovendo essere tutti comunque costretti a dosare i propri investimenti sia nell’offrire un prodotto, sia nell’usufruirne sotto forma di attività ricreativa…o potrebbe avere risvolti diametralmente opposti: la crescente scarsitá delle risorse potrebbe spingere ad un incremento delle stesse puntando sulla quantitá. Vedremo.
Ultima domanda, obbligata: Berlino vista con gli occhi dei Dadub.
La città sta cambiando, e seppur molto lentamente, sta esaurendo quella magia che l’ha sempre avvolta. Ciò non toglie che offre comunque un ambiente pieno di stimoli, positivi o negativi che siano; c’è sempre fermento e spazi per la condivisione di idee perché e’ comunque una metropoli di quasi quattro milioni di abitanti che peró non esercita quella pressione su chi la vive come potrebbero fare ad esempio Londra, Parigi o New York. È una città suddivisa su livelli paralleli che si intrecciano e convivono pacificamente ed ogni livello ha le sue realtà ed è possibile condividere influenze e conoscenze con tutti i vari strati con cui si ha a che fare. È estremamente facile prendere contatti con situazioni, artisti e personaggi che dall’Italia sembravano quasi irraggiungibili. Da non sottovalutare poi l’aspetto economico, il costo della vita a Berlino è relativamente basso e ti permette quindi di vivere anche con delle entrate modeste, senza doversi rompere la schiena per sopravvivere appena e lasciandoti il tempo per dedicarsi ai propri interessi, svilupparli e poter pensare di farli diventare vita quotidiana, cosa che in Italia pare sia assolutamente impossibile, sia per le condizioni economiche che per l’aria che si respira a livello sociale, culturale e politico. Ma la vita e’ un continuo cambiamento, e vogliamo davvero sperare che le cose presto cambieranno in meglio, perché vedere così tanti talenti italiani sprecati ed umiliati da un ambiente vecchio e stantío che non sa comprendere e sfruttarne il valore ci lascia molta tristezza.