Quando si aspetta da molto un evento, quando stai dietro a tutti i rumors che circolano in rete, quando cerchi ovunque informazioni su uno dei lavori più attesi del 2012, il rischio e la paura che le tue aspettative vengano deluse è alto, molto. Ebbene, dopo aver attraversato una Roma completamente innevata e deserta, una volta sprofondati nelle poltrone di una delle poche sale cinematografiche scelte per lo screening esclusivo di “Don’t Think”, ultima fatica dei Chemical Brothers e Adam Smith, beh, la paura di aver letto troppe review scoppiettanti c’era. C’era, ma è durata giusto una manciata di minuti, il tempo di affogare nel concept illuminante dell’opera: trascinare chiunque fosse in quella sala in ciò che molti di noi adorano, in ciò che andiamo cercando per i festival di tutto il mondo, in quell’ambiente familiare, e al contempo assurdo, in cui sappiamo potrebbe accadere di tutto. Crudo, così è il film “dei Chemical Brother”. Ad eccezione di sporadiche risate e della voce confusa di una “spettatrice” persa nella follìa della festa, non ci sono dialoghi, solo musica e visual fusi alla perfezione. Adam Smith, sfruttando 20 telecamere sparse fra la folla, ci trascina nel bel mezzo dell’evento, tanto che a volte ci si sente stretti fra il pubblico. Ma non è solo questo, il valore aggiunto è la perfetta creolizzazione fra ciò che avviene sugli schermi retrostanti il duo e ciò che avviene nella realtà, fra la gente. Embrayage e debrayage a matriosca: i piani si intrecciano, si fondono al punto che realmente non si riesce più a capire se ciò che si sta osservando da quella dannata poltrona sia frutto di un montaggio o di una semplice registrazione della realtà dei fatti. Crudo, sì! Perché troppo spesso siamo abituati a correre sulle pagine facebook degli eventi a cui abbiamo partecipato al fine di trovarci immortalati in foto dalle tonalità sovrasature e in pose da pseudo-modelli; ma sappiamo benissimo che spesso non siamo quelle persone, sappiamo che se avessimo avuto una smorfia sul viso, gli occhi chiusi che guardano alla musica e una maglietta imbrattata di un qualsiasi cocktail, non saremmo in quell’album fotografico; perché l’obbiettivo di quella raccolta e di dare una visione onirica e distorta della realtà, certo, una visione anche divertente e romantica se vogliamo. Questo non è però l’obbiettivo di “Don’t Think”. Non vengono fatte selezioni, non vengono tagliate inquadrature di occhi spaesati, di gente in estasi o che ha esagerato, di gente impaurita (sì, impaurita!), di sudore e iperattività. Tutto è portato sullo stesso piano, tutto fa parte della stessa totalità, dall’individuo in disparte che ascolta serio e inamovibile quella grandine di suoni, alla coppia felice che sorride, al pazzo che da spettacolo vagando in maschera fra la folla. E’ questa la forza del film, riportare l’evento da tutte, TUTTE le sue angolazioni. Ma passiamo all’aspetto che più ci riguarda: la musica, il coinvolgimento. Devo ammettere che i primi 20 minuti del film non ce li siamo gustati al meglio. Portare una tale opera al cinema è pericoloso, perché siamo gente da bassline, da cassa decisa, da suoni che ci avvolgono veramente. E questo non per fare la parte dei soliti fissati, o fomentoni, ma semplicemente perché ascoltare “Horse Power” riuscendo a parlare tranquillamente con il vicino di banco non è cosa sopportabile. “If you think it should be a little louder, don’t be shy, speak to your cinema staff”, così hanno comunicato i Chemical poche ore prima dell’evento. Eravamo giustificati, siamo volati in cabina per chiedere di alzare il volume al fine di farci vivere al meglio quell’esperienza. Cinque minuti dopo l’audio era decisamente migliorato, certo i bassi corposi mancavano, ma quella che fino a poco prima era una sala di gente seduta e dubbiosa si è trasformata in un corpo unico, fatto di pugni in aria, teste in movimento, qualche urlo e applausi a fine traccia. La selezioni musicale messa in atto dal duo non è stata incentrata su colpi di scena, la sequenza delle tracce è quella che solitamente viene seguita durante i loro show, i must ci sono quasi tutti, compresa la nostra amata Saturate. E come alle loro performance, si sente a volte il sovrapporsi di tracce non perfettamente a tempo. I fratelli chimici non si sono nascosti dietro un dito: ripeto, un film splendidamente crudo! La cosa divertente è che ognuno di noi inizialmente cercava di contenersi nello sfoggio dell’energia che via via accumulava: diamine, è pur sempre un cinema! Scusa effimera. La seconda parte del film rende dannatamente scomoda quella poltrona, inutile cercare una posizione confortevole: tutti sapevamo come sarebbe andata a finire, serviva solo che qualcuno se ne sbattesse e si alzasse in piedi. Una coppia, non curante di usi e costumi, decide finalmente di liberarsi di quel ridicolo sedile e di trasferirsi al Fujirock Festival. Ormai era andata: la sala si era definitivamente trasformata, era un ibrido fra cinema e club dove la gente ballava sempre più incurante di chi stava osservando, alzava in aria le mani, scambiava effusioni, rideva e trascinava con sé l’amico più timido che ancora era seduto. Per chi come noi si è alzato il film si è trasformato in una festa! Don’t Think, Hey Boy Hey Girl, Escape Velocity, la sala era veramente Out of Control. Verso la conclusione il sound diventa leggermente minimale, con una traccia che il duo si sta portando dietro da tempo e di cui non si sa nulla, quella accompagnata da visual fatti di fari e lampadine. Alla fine dell’ultimo brano rimaniamo tutti in piedi a guardare il pubblico in delirio sullo schermo, sperando (sia noi che loro) che accada qualcos’altro, sperando che non fosse tutto finito lì. Ed eccolo il tocco di classe, il finale a colpi di Big Beat! Tom e Simons non hanno scelto la classica chiusura a cassa dritta, bensì tornano alle origini, agli anni ’90 quasi come a chiudere il cerchio. Arrivano brani come Block Rockin’ Beats, che regalano le ultime esplosioni di energia, che fanno alzare gli ultimi timidoni e che, veramente, ti fanno venir voglia di prendere il primo aereo per la loro prossima performance. A fine bis c’è lo sgancio, si ritorna alla realtà, si viene liberati dai visual, il pubblico sullo schermo e quello del cinema si uniscono in un unico applauso mentre partono i titoli di coda accompagnati da un brano che veramente non mi aspettavo di sentire e di cui non vi dirò il nome, non per egoismo, ma perché vi priverei della possibilità di assaporarlo a fine film.
Uscendo dal cinema abbiamo parlato con il pubblico, abbiamo chiesto opinioni, cercato soprattutto pareri negativi ma la risposta più negativa che abbiamo ricevuto è stata “bello, come me l’aspettavo”. C’è da dire però che da un film del genere ciò che veramente risalta non è il duo, se già lo si è sentito per bene e si è preparati alla loro carica dirompente, ma il regista Adam Smith. Un film montato con grande maestria, dove i movimenti di macchina sono studiati ad hoc per ogni scena, per ogni sensazione che si vuole trasferire. Un film che va ascoltato, ma sicuramente anche osservato. Ed è il prodotto finale che acquista quei punti in più che lo differenziano dal resto, quel poter vivere i visual, vivere le passioni del pubblico e al contempo provare l’emozione, unica, del sentire una sala cinematografica urlare a tempo “Back with another of those block rockin’ beats!”.