Sono passati ormai i tempi in cui quel ragazzo basco si divertiva a giocare “rubando” e modellando vari campioni di dischi sconosciuti, figli di un attento e prolungato ascolto. John Talabot non è uno di quei tipi nati già “imparati”, ma al contrario ha dovuto formarsi da solo e impegnarsi molto per poter imporre il suo sound. Risulta davvero incredibile pensare che il successo sia arrivato improvvisamente e quasi per caso in seguito a “Sunshine”, pubblicata, per diletto, su Myspace nel 2009. Ora tutto è cambiato e John Talabot non può più sfuggire da quei riflettori, ostici nemici negli anni della sua ostentata volontà di rimanere anonimo. Su di lui si sono già sprecati paragoni eccellenti (con Nicolas Jaar per dirne uno) e non poteva essere altrimenti, specie dopo l’ascolto del suo ultimo album “fIN” uscito su Permanent Vacation, grazie al quale ha potuto farsi conoscere anche dal pubblico italiano nelle sue recentissime apparizioni al Rashomon e al Tunnel. Analizzando in profondità il tutto non può passare in secondo piano la lenta metamorfosi dell’artista nella quale le ritmiche houseggianti degli esordi cedono il passo a vibrazioni decisamente più dark. Proprio a tal proposito va motivata la scelta del titolo dell’album (“fIN”) attraverso cui John desidera condividere la soddisfazione a seguito della conclusione del suo lavoro, frutto di un ingente investimento di fatiche e tempo.
Veniamo dunque al principio. L’impatto iniziale è davvero forte, in “Depak Ine” infatti traspare l’animo dark testimoniato da cut vocali slow pregevolmente assemblato al sapore etnico e all’atmosfera di una realtà completamente naturale. Un filo conduttore velato ma che ritroviamo successivamente anche in “Destiny” dove lo stampo vocale dell’amico Miguel Barros aka Pional si contrappone ad un ambient sofistico con bells tanto insistenti quanto adeguati all’interno di un contesto progressivo davvero travolgente. Lo stesso Pional si ritroverà poi nell’elegantissima deep house di “So Will Be Now”, forse il brano più “commerciale” dell’intero album, un compendio di vocale e sinfonia ammirabili alle prime luci dell’alba. Non può mancare inoltre la firma di Ekhi Lopetegi, la faccia più nota dei Delorean, con il quale confeziona “Journeys” caratterizzata da una melodica chill out squisitamente dolce che a poco a poco diviene più articolata. Con “El Oeste” si manifesta palesemente l’irrisoria facilità con la quale il catalano ostenta il fremito del suono balearico supplito dalla consistenza e raffinatezza del synth. Funk e reminiscenze made in 80’s contraddistinguono “Estiu” affiorando in seguito nella stessa “Oro Y Sangre” con synths decisamente più acri e atmosfere emozionali. Un ricordo agli anni passati che continua a pulsare anche nel beat pungente di “When The Past was Present” tra un’armonia divergente e sfumature simil trance. “Horse” e soprattutto “Last Land” riportano in auge con grande pacatezza quella folk malinconica che tanto ricorda lo spirito di Caribou, dei quali John non nega di essere un fan sfegatato. L’analisi termina con la profondità legata agli spunti sonori di “Missing You” inglobati in un vortice funk molto convincente.
Poche (quasi nulle) finora sono state le critiche, molti invece gli apprezzamenti. Personalmente non penso di esagerare nell’affermare che l’originalità e il perfezionismo di questo lavoro lo inseriscono di diritto tra i canditati al premio di album elettronico dell’anno.