2012, fuga dal pianeta m_nus. Non crediamo sia una casualità se dal 2006 fino a poco tempo la Items And Things di Magda, Troy Pierce e Marc Houle abbia pigramente sonnecchiato, con giusto un’uscita ogni tanto come passatempo, per diventare all’improvviso attivissima. Magda la prima a lanciare dei segnali precisi, con dj set che viravano improvvisamente verso coloriture disco e house (ce la ricordiamo così, al Time Warp dell’anno scorso, dove era in libera uscita e non aveva la responsabilità di fare il té a Richie Hawtin e di rappresentare il marchio m_nus), ora a chiarire ancora di più le idee il secondo album di Marc Houle, “Undercover”, e il precedente – e pallosissimo – “Drift” non potrebbe essere più distante.
Una certa gelidità di fondo rimane, d’altro canto è come nei fidanzamenti, non puoi essere stato così a lungo con uno o una senza prenderne almeno un po’ di tic verbali e modi dire, e comunque potrebbe essere una chiave interessante quella di provare ad unire essenzialità e gelidità con toni e stili, invece, più caldi e molto più newyorkesi. L’hanno fatto i Metro Area, mille anni fa, e ancora oggi “Miura” e i suoi fratelli sono armi che ribaltano ogni dancefloor, provate a dir di no.
Il problema di “Undercover” è che, ascoltato come album, dopo un certo numero di tracce mostra un po’ la corda. Annoia. Houle è bravo, ma non bravissimo. Dà sempre l’impressione di ricopiare certe soluzioni, invece che di reinterpretarle; e il tono robotico, quasi dimesso che emana da tutte le tracce incuriosisce all’inizio ma dopo un venti, trenta minuti pare molto più un limite che una risorsa o una precisa scelta di stile. Diventa, ecco, semplicemente legnoso. Si potrebbe dire, riprendendo una vecchia querelle nata ai tempi di “Play It Loud!” di Marco Carola: oh, è roba che suona meglio su un dancefloor che ascoltata a casa. Vero. Ma il punto è che tutto, suonato da un impianto decente, suona meglio su dancefloor. La prova del nove? Una cosa che suona bella e convincente nell’impianto di casa vostra o nel vostro lettore suonerà sempre bella e convincente anche sul dancefloor, mentre non è assolutamente vero il contrario. E visto che qua – soprattutto se si esce con album come nel caso “Undercover” (o di “Play It Loud!”) – si ambisce a fare musica con la M maiuscola e non solo dei tool da pista, non possiamo che dire che Houle è rimandato. Non è che non si applica, è che proprio non ce la fa. Però va detto che meglio questo lavoro di quello minusiano, troppo minusiano che lo ha preceduto. La strada quindi è probabilmente quella giusta, ma il tragitto è ancora lungo.