Per molti anni Elita è stato più, che un festival, un’astuta operazione di marketing: molto milanese, come cosa, quindi filologicamente corretta visto che parliamo di un festival di Milano, ma fondamentalmente si trattava di appiccicare il marchio del festival su eventi che ci sarebbero stati comunque. Per i non milanesi, infatti: sappiate che nei giorni del Design Week la città scoppia di presenze (si parla di 300.000 e passa persone provenienti da fuori città se non addirittura fuori Italia), e sono presenze “giuste”: designer, creativi, curiosi di nuove tendenze e quindi anche nuovi suoni. Risultato? Gli eventi e le serate nei club spuntano da tutte le parti. Sempre. Immancabilmente. Eccessivamente, quasi. E le serate abituali, quelle che ci sono anche nei periodi normali dell’anno, possono contare sul triplo del pubblico potenziale. Il team di Elita è stato furbo a lavorare su questa cosa, ma per molto tempo appunto l’appellativo di festival era appunto abbastanza usurpato. Da qualche edizione però, soprattutto da quando si è trasferito il quartier generale nella bella location del Teatro Parenti, le cose sono cambiate e la direzione artistica del festival – composta da persone che di musica ne sanno – ha potuto iniziare a far vedere il proprio tocco.
Questa premessa è fondamentale, per inquadrare al meglio il resto di questo report. Ciò che è propriamente Elita, è quanto si trova al Parenti. Infatti, lì, scelte interessanti, anche se come vedremo con luci ed ombre. Gli altri eventi (tipo Soul Clap al Tunnel o Richie Hawtin ai Magazzini) sono anche degni di nota ma li si possono beccare anche in una normalissima settimana milanese, e nella settimana del Design Week sono quasi d’obbligo (e lo sarebbero anche se Elita non esistesse). Appiccicarci sopra il marchio di appuntamento-di-un-festival è utile più che altro al festival stesso per vendersi ai potenziali sponsor (che nei giorni del Design Week vogliono investire, sennò si sentono figlio di un dio minore… lasciamo i commenti a voi). Anche questo comunque è da sottolineare, e intendiamo – non solo in maniera negativa. In fondo, è una “best practice” lavorativa. Un meccanismo simile a quello della Winter Music Conference di Miami, giusto per fare un esempio. Ottenere il massimo (sponsorship) col minimo sforzo (meno produzioni autonome).
Che ad Elita però sappiano fare cose di gran gusto ed inventiva è confermato già dall’anteprima per la stampa: invece di una triste press conference in uno stanzone grigio dall’illuminazione bulgara, con lo bottiglie di plastica di acqua messe sul tavolo dei conferenzieri, ci si è ritrovati all’ultimo piano (o giù di lì) del grattacielo più alto di Milano, la Torra Nuova Porta Garibaldi. Un grattacielo in realtà ancora in costruzione e aperto quindi apposta per noi: per arrivarci si entra nel cantiere ancora in funzione, per arrivare al piano preposto (il ventiseiesimo) si sale su un montacarichi più che un ascensore, ma una volta arrivati al traguardo la vista sulla città è pazzesca, unica. Una bellissima esperienza. Ma ciò che più conta è la musica: niente dj distratto che suona musica anonima da aperitivo, ma un live degli Esperanza che davvero supera i migliori WhoMadeWho (che, a loro volta, dal vivo spaccano): la band formata da Cécile, Refleksie (alias Matteo Lavagna) e Sergio Maggioni ha ora un batterista meno famoso – Sergio Carnevali dei Bluvertigo non c’è più – ma è diventata una macchina da guerra, molto superiore a quanto fatto sentire con l’album d’esordio uscito su Gomma, che già di suo non è da buttare via. Più ritmici ed adrenalinici, ma con la stessa capacità di disegnare traiettorie sognanti e psichedeliche. Bravissimi. Apertura del festival, per quanto solo ad inviti e per poche persone, di gran classe ed impatto. Doppieranno il loro live tre giorni dopo, al Bitte, con The Field: noi non c’eravamo, ma pare sia stato altrettanto bello (con The Field un po’ fuori fuoco ma comunque bravo – la materia prima da cui parte è troppo bella per poter fare un brutto live).
Strettamente ad inviti anche la seconda giornata, qua parliamo di mercoledì 18 aprile, ma nel caso della serata al Parenti gli inviti erano in gran numero (e comunque c’è chi è riuscito ad entrare anche senza… indovinando a caso un paio di parole segrete…). Il primo act è stato un po’ discutibile, ma ci viene il sospetto fosse un po’ voluto dallo sponsor visto che vi è stato affiancato anche Andrew Howe (testimonial dello sponsor suddetto) come batterista ospite: i Mixhell sembrano un po’ usciti da un film di Verdone stile “Iris Blond” giusto attualizzato ai giorni nostri: lei mette le basi, lui fa il batterista, tanto fumo poco arrosto, tanta cassa in quattro poco gusto. Per fortuna poi è arrivato – e qua il tocco di Elita ce lo vediamo eccome – Mr. Scruff, che si è “accontentato” di suonare per tre ore e mezza (di solito per contratto ne chiede cinque, e se non gliele dai non suona) ma ha divertito come sempre la platea. Magari ha indugiato un po’ troppo sui “soliti” successi, ed in effetti su “Get A Move On” abbiamo deciso che ne avevamo abbastanza; ma ce ne fossero, di dj come lui, housey e soulful, funky e ironici, mai di cattivo gusto, sempre sorridenti. Evviva la Ninja Tune. Coda della serata strepitosa, per trecento fortunelli: un dj set di Onra in uno stabilimento termale. Tutti a ballare in costume da bagno ed accappatoio, o rifugiati nelle vasche termali all’aperto, alle due di notte. Onra ha capito l’andazzo ed invece di suonare le cose “sue” – hip hop destrutturato e visonario – è andato di gran paraculaggine, arrivando a “Gypsy Woman” di Crystal Waters (la da deee, la de daaa…). Posto incredibilmente bizzarro e suggestivo per fare clubbing, serata molto divertente.
Per alcuni comunque tornare ad Elita è stato un po’ un riprender tutto da dove l’avevano lasciato, dai Soul Clap, già ospiti del festival. Giovedì 19 aprile erano in consolle al Tunnel già da mezzanotte, col party che iniziava gradualmente a liberare energia; quel sound house, deep da un lato e misto a sonorità anni ’80 dall’altro, sonorità impolverate ma sexy da far paura. E’ stato un crescendo, eravamo in pochi all’inizio, tanto che a qualcuno è venuto il serio dubbio che il party non sarebbe andato poi così bene; verso le due e mezza, invece, l’impianto del club ha iniziato finalmente a suonare, il pubblico a invadere il dancefloor e la consolle a riempirsi di amici e artisti come i Tale Of Us. Un’ottima maniera per iniziare i quattro giorni “ufficiali” del festival.
Prima di Soul Clap comunque il piatto forte era al Parenti: ad aprire i giovani milanesi Iori’s Eyes (migliorano a vista d’occhio, in cerca di una voce personale che li porti fuori dai luoghi comuni indie e dalle facilità pop), poi i due Walls che un po’ hanno convinto un po’ no (la cassa in quattro si adagiava in modo un po’ troppo grossolano in certi punti sull’inteleiatura ambient-noise), infine le star della giornata, i Little Dragon. La band svedese capitanata da Yukimi Nagano (gà nei Koop) sa costruire congegni electro-swing-pop deliziosi; ultimamente però stanno andando in una direzione di scarnificazione del proprio suono che, beh, convince meno. Sia su album, che dal vivo. Live divertente e Yukimi accattivante, nella sua presenza on stage. Ma ci si aspettava onestamente di più.
Hanno dato molto invece i Bosconi, nel senso di una all star dell’etichetta che voi tutti ben conoscete che si sono concessi una serata tutti-insieme-appassionatamente al Q21, altro appuntamento extra-Parenti di Elita oltre a Switch al Dude (che però ci siamo persi): la migliore label italiana – ormai lo si può dire – ha presentato un alternarsi di dj set, live set e back to back (ottimo quello fra Mass Prod ed Alex Picone) davvero da paura. Talenti come Dukwa ed Herva non nascono ogni giorno, live come quello dei The Clover sono l’eccezione e non la regola dalle nostre parti. Bravissimi, bravissimi tutti, nessuno escluso, a partire dai Minimono e da Rufus. Serata assai riuscita insomma, non fosse stato per il pubblico che non era troppo (ma neanche poco) e soprattutto era sul discotecaro andante. Ora, c’è poco da fare gli schizzinosi: senza il pubblico discotecaro in questione magari la serata sarebbe stata un buco, come no. Però ci si chiede: possibile che se degli italiani fanno delle cose di qualità in ambito club culture, o suonano di fronte a quattro gatti o devono affidarsi al solito giro di pr che non distingue la Poker Flat da Flying Lotus? Le cose stanno veramente così? Se sì, di chi è la colpa?
Ma proseguiamo. Venerdì sera ci siamo ritrovati al Teatro Parenti per un po‘ di indie elettronico, come riscaldamento; scelte non banali, non scontate ed interessanti, da parte della direzione artistica di Elita. Prima i Vondelpark, un giovane gruppo di ragazzi piacevoli da ascoltare: forse basi un po‘ troppo presenti e suoni live poco incisivi, ma non male nel complesso. Il pubblico non era numeroso (eufemismo), pochi curiosi e un ambiente estremamente familiare. Così anche per i Citizens!, in teoria più blasonati e già sulla bocca di un po’ di gente del giro indie, che però non ci hanno fatto impazzire, un po‘ troppo scontati nei suoni e nella performance come sono stati. La situazione è cambiata poi con Connan Mockasin: il parterre del teatro si è iniziato a riempire, il sound ad acquistare personalità propria. Hanno scritto bene quelli di Elita “Atmosfere che sembrano uscite direttamente da un film di David Lynch, scritto però da Daniel Johnston”. Mescolando cadenze jazz, folktronica e elementi fusion (sì esatto, fusion!), Connan ha portato a termine un live decisamente degno di nota. Peccato, di nuovo, per l’assenza di pubblico, che nel caso dei primi due act è stato ai confini dell’imbarazzante: è vero che il prezzo del biglietto era parecchio alto (25 euro) per tre nomi sconosciuti ai più, ma di sicuro la serata meritava sorte migliore.
Chiuso il Parenti abbiamo deciso di cambiare cornice: Magazzini Generali – Richie Hawtin + Maya Jane Coles. Location qui invece stracolma, pubblico decisamente euforico e schizzato. Andare in bagno era un’impresa che poteva rubarti anche venti minuti. Eravamo lì principalmente per Maya, Hawtin sappiamo tutti che è un treno implacabile ed impeccabile. Ebbene sì, la ragazza che cambia colore ai suoi capelli una volta al mese sa decisamente come tenere in mano il dancefloor: sound potente, con percussioni che stremano le gambe. Una riserva, però: l’abbiamo visto il modo in cui la ragazza è stata pubblicizzata nell’ultimo anno, oltre alla potenza ci aspettavamo quindi anche qualcosa di nuovo, qualcosa di fuori dai canoni, delle novità. Non lo abbiamo sentito.
Sabato è stata invece, senza ombra di dubbio, la serata più interessante del Teatro Parenti. Koreless decisamente bravo; ai tipici respiri ambient delle sue produzioni, ha aggiunge quel pizzico di energia che ha fatto la differenza. Poi Ghostpoet… beh, poderoso! Raffinato e umile, una grande presenza scenica che nella seconda metà della performance è stata accompagnata da una carica dirompente. Infine, lo maggior corno del Teatro Parenti: i Brandt Brauer Frick Ensemble. Pianoforte, violino, violoncello, trombone, tuba, arpa, piano, tre percussionisti, Moog, tavoli e vari oggetti d’uso comune. Una performance delicata, interessante e decisamente rischiosa – più volte Paul Frick ha dovuto chiedere di fare silenzio in sala, per brani un po’ più complicati. Ma questo è solo un piccolo appunto di poco rilievo, in una serata che si è rivelata vincente (non del tutto dal punto di vista numerico dell’affluenza, ma assolutamente dal punto di vista qualitativo).
Ci siamo poi spostati nuovamente al Tunnel per un grande Matthew Herbert, poco attento al missaggio e al sincro fra i brani, ma sicuramente di classe nella selezione. Un’apertura splendidamente afro, poi un passaggio un po’ legnoso al “four on the floor”; da lì, fra house, techno ed electro, è stato grandioso fino alle quattro e mezza. Una delizia, con un sacco di riferimento old school, di quelli che se suoni seguendo le chart di Beatport manco conosci (mal te ne incolga, maledetto).
Per la chiusura del festival ce la siamo presa comoda, siamo arrivati al teatro giusto in tempo per ascoltare i Tale Of Us e Jamie Jones, entrambi armati di dischi insoliti per i loro standard. Altri colleghi di Soundwall sostengono che nel momento in cui il duo ha suonato “The Hope” di Scuba la serata ha iniziato a prendere il volo. Ad ogni modo sono stati veramente bravi, decisamente sopra gli standard di cui ricordavamo. Poi, dopo di loro, un Jamie Jones dalle sonorità più dritte e secche rispetto a quelle a cui ci ha sempre abituato; diciamo che anche se una chiusura più rilassata come quella dell’altro anno ci sarebbe stata alla grande, il pubblico del teatro non ha minimamente disdegnato la scelta di Jamie di portarci tutti alla chiusura del festival a passo di techno, lasciandoci senza parole verso la mezzanotte con quella fantastica “The Sky Was Pink” rivisitata da James Holden. Per questa chiusura finale, affluenza oceanica: strano vedere gente da Richie Hawtin o Loco Dice stipata in un teatro, per quanto atipico come il Teatro Parenti. Strano, ma bello. Certo però che si poteva tranquillamente alzare il prezzo del biglietto della domenica (10 euro) abbassando un po’ quelli dei giorni precedenti al Parenti. Insegnamenti utili per l’anno prossimo, per un festival che rende Milano e il Design Week un posto migliore; magari non lui da solo, visto che la città brulica e brulicherebbe comunque di eventi, ma ora che la mano curatoriale è più presente, per Elita va il nostro apprezzamento e il nostro convinto incoraggiamento: può fare la differenza, facendo uscire la città dalla trappola dell’”eventismo” per costruire, invece, un compiuto percorso musicale fatto di mille stimoli e prismi.
(reportage scritto, pensato e costruito assieme a Jacopo Villanacci)