L’ultimo disco di Burnski – tre pezzi prodotti da One Records – parte subito come piace a me: caldo e penetrante, da pista semivuota ma già piena di promesse. E’ “Let It Be”, featuring di Burnski e un certo Beckford che, devo ammetterlo, non avevo mai sentito. A conti fatti direi che la condivisione fra i due è riuscita molto bene. Non solo per i motivi di prima, ma anche per quella vena sperimentale, acida e cinematografica al tempo stesso, che esce fuori nella seconda aprte della canzone. Belle le note di piano, il loop di sottofondo che si avvinghia su se stesso come schiuma spinata male. Bella l’idea di base. Insomma, tutto molto fico.
Passando a “Feeling” mi apro subito una birretta e mi riprometto di non scrivere una riga prima del terzo ascolto, che le cose vanno capite e tutto il resto. Ma non resisto. E’ un pezzo assolutamente vago, quasi inutile, una specie di selezione da cestino di Burnski, qualcosa tipo “il meglio del peggio” che propiro non mi piace. Cassa detroitiana (ma non abbastanza), voce sensuale (ma non abbastanza), tutto a metà strada fra house e techouse. No, non ci siamo. Non bastano i campanellini minimali, che pure mi incuriosiscono, a cancellare quei cinque minuti buoni di noia. Ma davvero è la stessa persona del pezzo di prima?
Molto meglio il remix di Shelton (il pezzo numero tre, quello che chiude il disco), il quale ha saputo tirar fuori da una base sostanzialmente ovvia e ripetitiva un loop di tutto rispetto, molto “nineties” e ballabile, accompagnato da una voce che in fin dei conti aggiunge estro e classe a una traccia difficile da rimettere in piedi. Bravo Shelton.