Ogni giorno capita di ricevere decine e decine di mail di uffici stampa, etichette, promoter, eccetera: uno spaccato socio-antropologico notevole, un bel barometro su come la cultura viene pensata, sviluppata, comunicata in Italia. Molte sono scritte comunque bene; molte contengono invece fregnacce, ma in fondo sono perdonabili perché si tratta di eventi non troppo grossi. Quelle che capita di scrutinare con attenzione – fatelo, questo esercizio, se siete in un pò di mailing list – sono le comunicazioni che arrivano da brand importanti o da eventi grossi. Lì l’obbligo morale di fare le cose per bene c’è, perché se sei un marchio di una certa importanza o un festival che punta alle grosse dimensioni non puoi fare le cose male. Questione di professionalità.
Ma se le cose le fai bene, però pensi male? Ecco. Questo sì che è un problema. Ci ha fatto molto riflettere il comunicato stampa che abbiamo ricevuto via mail su uno dei principali eventi di musica elettronica che si svolgerà quest’anno in Italia. Riportiamo la parte saliente, che è un virgolettato riferito a parole pronunciate degli organizzatori stessi: “E’ una storia d’amore scoppiata tra la musica ed un gruppo di ragazzi desiderosi di portare i più grandi nomi della dance nella loro città e condividerla con migliaia di coetanei e non. Un’idea giovane nata circa due anni fa, quando ci siamo accorti che in ogni capitale mondiale si svolgevano grandi festival musicali: Roma non poteva e non doveva essere da meno”. Ecco. Letto con attenzione? Preso nota? Occhio, che vogliamo accompagnarvi in un ragionamento ben preciso. Già. Perché ora vi riferiremo un altro stralcio che riguarda, apparentemente, tutt’altre questioni. Su uno dei recenti numeri di Dj Mag è apparso un articolo/inchiesta su come i principali giornalisti musicali italiani generalisti – quelli che scrivono sui quotidiani, per intenderci – vedano la musica e la scena elettronica. Il decano dei giornalisti in questione, il più potente di tutti, ma anche quello che – ricordiamolo – è riuscito a recensire un concerto che non si era mai svolto (annullato all’ultimo momento, ma il nostro eroe non si è degnato di alzare il culo dalla sedia e ha scritto l’articolo nel pomeriggio facendosi mandare preventicamente la set list dagli organizzatori), ecco, quest’uomo di nome Mario Luzzato Fegiz firma di punta del Corriere Della Sera ha dichiarato quanto segue: “Credo sia un problema anagrafico. Io, Mangiarotti, la Venegoni (critici musicali rispettivamente de Il Giorno/Qn e de La Stampa – ndr) siamo tutti over sessanta. Di rock sappiamo scrivere e parlare, di X-Press 2 non sappiamo niente. Poi non esiste una generazione che ci abbia sostituito, né giovani che ne sappiano scrivere, così come non credo che la dance abbia resa giornalistica. Noi siamo abituati a raccontare fenomeni che investivano la coscienza collettiva. La dance investe una nicchia di consumatori”.
La prima reazione, a leggere le parole di Fegiz, è fastidio. Una persona che più o meno sta rubando il suo stipendio: visto che sarebbe suo dovere aggiornarsi (ma la sua arroganza e i privilegi che nel frattempo ha accumulato gli impediscono di farlo, o non lo obbligano a farlo). Uno che è finto scemo: perché dovrebbe sapere che proprio la sua presenza inamovibile in redazione e comunque il modo in cui è strutturato il mercato del lavoro italiano rendono difficile se non impossibile un ricambio… grazie tante che “non esiste una generazione che ci abbia sostituito”. Non dico giovani, ma almeno trentenni/quarantenni che abbiano una competenza enorme per poter scrivere di elettronica in Italia ce ne sono eccome. Peccato che la cupola degli over sessanta, che pone e dispone su ciò che succede nelle pagine culturali dei quotidani in Italia, non ci pensa nemmeno a commissionare a questa gente degli articoli – se non proprio quando sono disperati e non sanno come riempire le pagine ed è terminato ogni possibile articolo sull’ennesima ristampa dei Pink Floyd o Beatles o Rolling Stones.
Odio per Fegiz e i suoi simili? Disprezzo per gente che, contro ogni evidenza numerica, continua a sostenere che la dance investe una nicchia di consumatori e non ha resa giornalistica? Certo. Senza tregua. Acuito dal fatto che, gattopardescamente, nel resto dell’intervista Fegiz ha in realtà parole quasi benevolenti verso l’elettronica (indicata come la musica più innovativa e propositiva, per dire: il danno oltre la beffa) Però, c’è un “però”. Ed è qui che torna in ballo ciò che scrivevamo all’inizio e le dichiarazioni degli organizzatori dell’evento grosso-grosso che sta a Roma, quelli delle dichiarazioni via comunicato stampa citate nelle prima righe. Ora, chi scrive questo post per fortuna ha una esperienza ormai piuttosto lunga in campo musicale, non solo come giornalista e non solo in campo elettronico. Vi posso assicurare che i principali promoter italiani in campo rock, quelli che arrivano ad organizzare eventi in stadi o palasport o comunque con artisti il cui cachet supera i quattro o cinque zeri, possono avere mille difetti, possono essere persone più o meno gradevoli, possono essere quello che volete, ma della materia musicale di cui trattano hanno una conoscenza reale. La affrontano in modo serio e professionale. La affrontano anche rispettandone il patrimonio storico.
E quindi ti viene quasi da dire che è giusto da parte dei Fegiz di turno pigliare per il culo la galassia nostra, quando gli organizzatori di quello che dovrebbe essere – a giudicare dalla location scelta – il principale evento di musica elettronica italiano dimostrano in poche parole di non avere la minima coscienza storica (sì, perché mo’ sono arrivati a loro a fare le cose, prima di loro il deserto… Dissonanze e pure Amore chi li conosce? Ci saranno mai stati?) e soprattutto un modo di ragionare profondamente sbagliato, intriso di luoghi comuni e di complesso di inferiorità. Sì, perché sconforta davvero leggere la retorica del “gruppo di ragazzi” e della “idea giovane”, buttati lì con la chiara, chiarissima intenzione della captatio benevolentiae. Le idee, a certi livelli, non si distinguono tra giovani e vecchie ma tra buone e cattive (fra parentesi, a giudicare da come è stata assemblata la line up dell’evento in questione le idee non sono propriamente buone, ma non siamo qua a parlare dell’evento in sé, infatti non lo nomineremo in tutto l’articolo – non vuole essere una battaglia contro un festival o delle persone precise, questo sia chiaro). E io come organizzatori di un evento che vuole richiamare 25.000 persone (questo quanto dichiarato) non voglio un “gruppo di ragazzi”, anzi, mi preoccupa se una cosa tanto grande è data in mano ad un “gruppo di ragazzi” (tra l’altro, probabilmente non lo è, perché nell’evento in questione pare ci siano anche persone di forte esperienza in campo: ma allora perché insistere su questa retorica?).
Sì, perché poi vado col pensiero a quanto è successo l’anno scorso, in campo hip hop. Un “gruppo di ragazzi”, tre tizi poco più che ventenni che se la sono sentita “calda” solo perché un po’ di loro serate da qualche centinaio di persone erano andate bene, si erano lanciati nell’organizzare a Bologna l’evento hip hop dell’anno, con Snoop Dogg come headliner e molti altri nomi in cartellone. Nessuna esperienza alle spalle su eventi di queste dimensioni. Come far guidare una Ferrari a un ragazzino di dodici anni: infatti, si sono schiantati – l’evento non si è mai svolto, sono crollati sotto il peso dei debiti e della disorganizzazione a 48 ore dall’evento (aneddoto emblematico, fra i tanti: uno dei responsabili della sicurezza sanitaria che scrive sul web “Se non avessi letto un po’ di forum in giro sul web domani sarei arrivato alla venue con le ambulanze, per prestare servizio… nessuno ci ha avvertito dell’annullamento, pazzesco”), l’Italia ha fatto l’ennesima figura di terra piena di cioccolatai – cosa che danneggia profondamente chi il suo lavoro lo fa bene, seriamente e da anni.
Storia simile anche in campo elettronico, per due anni di fila, con Maximal, l’evento milanese che il primo anno è andato male e il secondo è andato peggio: ma lì almeno c’era una passione reale per la cultura (la line up era bella, le intenzioni nobili, non era una accozzaglia con Tiesto, i Crookers e i Pete Tong tanto per tirar su un pò di ingressi della serie “’ndo cojo, cojo”, più qualche producer house da sciampiste svedese-ma-non-troppo e una pletora di amici e resident locali oltre a qualche nome ok). Quello che non c’era era, a Maximal, la professionalità: business plan completamente sbagliati, eccesso di grandeur, sottovalutazione delle problematiche reali, incapacità di gestire le emergenze… così come era mancanza di professionalità anche l’invocare, a mezzo disastro organizzativo avvenuto, la “retorica dei giovani” (perché Maximal lo fece, con comunicati che trasudavano rabbia sul fatto che nessuno aiutava i “giovani” ed anzi gli si metteva i bastoni fra le ruote, facendo intendere che questo era il motivo per cui sia nella prima che soprattutto nella seconda edizione del festival moltissimi fra artisti e collaboratori vari non sono stati pagati: magari fosse questo…).
Insomma, se solo così stessero le cose, avrebbe ragione Fegiz. Invece non ne ha. Però sta a noi cominciare a condannare ed isolare come corpi estranei tutte le persone che dimostrano di non avere amore verso la storia, la consistenza culturale e la nobiltà intellettuale della musica elettronica. Che è pari a quella del rock o della classica o del jazz. Non è più il tempo di fare i bambini, o di fare i “giovani”. E di vivere sulla rendita di posizione che questo status comporta. E’ giunto il momento di essere esigenti, amiche lettrici e amici lettori di Soundwall. Dovete esserlo voi per primi.