Sms in arrivo. “Sold out, uffa. Ma senti, non è che puoi fare qualcosa?”: è bello che i tuoi amici e le tue amiche abbiano di te l’immagine di un Batman che tutto risolve e che soprattutto può accedere ad ogni guest list. Immagine falsa, ovviamente, anche perché al Sonar la politica degli accrediti è (giustamente) restrittiva, soprattutto nei giorni del festival. Toglietevi insomma dalla testa l’idea è che si possa andare davanti al MACBA di giorno o alla Fiera di notte e giocarsi la carta del “No, ma mio cugino una volta ha prestato le cuffie a Luciano, che mi fai entrare? Ti faccio chiamare da lui?”: quella se proprio ci tenete la si può sfoderare tranquillamente ai vari eventi Off Sonar, ovvero quel nugolo di party organizzati in autonomia che gravitano come satelliti collaterali (…o come parassiti?) attorno al corpaccione del festival. L’abbiamo già scritto l’anno scorso, lo scriviamo quest’anno, lo scriveremo l’anno prossimo: che senso ha venire fino a Barcellona nei giorni del Sonar per farsi più o meno lo stesso di party che fareste a casa vostra, visto che ormai in Italia come clubbing c’è di tutto e di più? Passi per eventi rari e/o improbabili dalle nostre parti – come l’evento Brainfeeder l’anno scorso – ma per il resto non possiamo fare a meno di compatire chi spende centinaia di euro per volare in Spagna quando potrebbe vedere gli stessi dj, sentire gli stessi suoni e quel che è peggio vedere le stesse persone un mese prima o un mese dopo a un raggio di centocinquanta chilometri dalla sua città. Quest’anno però dei party Off Sonar se n’è parlato meno: a naso ce ne sono stati pure di meno, soprattutto il Sonar vero e proprio nella terza giornata (ma forse anche nella seconda, aspettiamo conferma sulla Noche) ha fatto registrare un doppio sold out: Dia e Noche. Sì, veramente, la crisi non abita qui. Non possiamo confermarlo. E il pubblico ha smesso di disperdersi, o probabilmente lo fa meno di prima.
E la musica? Dove abita, quest’anno? Da nessuna parte, si diceva: manca il suono dominante. Quello che era un sospetto dopo due giorni su tre diventa una certezza al momento di trarre le conclusioni totali globali finali. Per certi versi, il “sapore” che si è sentito di più è stato quello del rap più crasso (quello che attualmente colonizza il mainstream, insomma), sotto forma di ritmiche crunk (Flying Lotus ne ha abusato) da un lato e di stralci più o meno ironici di rap gangsta inseriti un po’ dappertutto dall’altro. La nostra impressione? Da un lato è un simpatico giochetto ironico, ma dall’altro – scava scava – è anche un modo per dire “Oh, anche io avrei i titoli per essere nel mainstream”. Del resto se nel principale evento indie rock italiano, il milanese Mi Ami, il momento più emozionante a giudicare dai feedback sul web è stato veder comparire Max Pezzali fra il pubblico vuol dire che il rapporto indie / mainstream è in una fase intricata e contraddittoria un po’ per tutti.
Ci sono modi intelligenti per declinarlo, tuttavia. Magistrale la lezione del grande Cornelius, genio giapponese di una musica tanto geometrica e cervellotica da comporre quanto spesso gradevole e cantabile da ascoltare. Col progetto Salyu X Salyu ha arruolato appunto la cantante Salyu (avete presente “Kill Bill” di Quentin Tarantino?) e l’ha infilata in un progetto tra arrangiamenti pop semplici-semplici, partiture angeliche ma in realtà angolari, intreccio di voci tra il fanciullesco e lo sperimentale. Si esce col sorriso, a live finito. Non male neppure Darkside, l’avventura sonora che vede l’alleanza tra il wunderkind Nicolas Jaar e il chitarrista Dave Harrington: ovviamente, come sempre nel caso del cileno, in giro si sentono elogi a casaccio e richiami insensati (la stessa scheda di presentazione sonariana mette in campo Mulatu Astatke ed Erik Satie: bum), ma la sua house è saporita il giusto e gli interventi chitarristici di Harrington tra blues rarefatto e post-rock sono dosati a modo.
Altre cose viste o sentite nel Sonar Dia che meritano una menzione: positiva quella per Dj Harvey, che magari non metterà i dischi più nuovi del mondo ma come li mette lui li mettono in pochi, negativa quella per XXXY, che non merita l’hype che gli gira attorno, almeno a giudicare da un set dove tra mancanza di fantasia e tentativi di paraculate (se suoni “Promised Land” devi sapere quando suonarla…) se c’era lui o vostro cugino, quello che ha prestato le cuffie a Luciano, cambiava poco. Bravi come sempre Alva Noto e Byetone, qui sotto il nome Diamond Versions e con ospite il solito giapponese pazzo che fa cose assurde (un must, al Sonar), in questo Atsuhiro Ito che suonava una lampada al neon come fosse una chitarra elettrica (sì, avete letto bene).
Vai con la notte, allora, con gli sms su come far entrare amici di amici di amici che fioccano ancora più copiosi che di giorno. Subito una parola su The Roots. Una, e ben scandita: stre-pi-to-si. A descriverlo sembra un concerto del cazzo (assoli infiniti, cover dozzinali tipo “Sweet Child O’ Mine” dei Guns’n’Roses, tante moine verso il pubblico), a vederlo semplicemente il concerto dell’anno. Una compattezza ultraterrena, una capacità di “coprire” fisicamente il palco inumana, una comunicatività musicale che nessuno e ripetiamo nessuno oggi ha (forse ce l’ha Springsteen, ma lì dovete essere appassionati del caro, vecchio rock, e noi non lo siamo). Rap, funk, soul più mille citazioni varie rappate e suonate da dio. Trionfo. Meritatissimo. Dopo aver visto un concerto del genere pensi “Ecco, ora vedere i Die Antwoord sarà una merda, col loro rave-rap di plastica”, invece pure i sudafricani ti lasciano con un sorriso grande così: tamarri al massimo grado ma anche sottilmente intelligenti, giocano sull’immagine di se stessi trovando sempre il giusto equilibrio per non diventare macchietta, restando quindi 1) provocazione intelligente 2) un congegno da party che manda almeno 10.000 persone con le mani in aria.
Ci esaltano così tanto, ‘sti sudafricani malati, che saltiamo senza troppi patemi d’animo Maya Jane Coles (è brava, fa house bene, ma appunto – fa house, mica si è inventata nulla di nuovo) e guardiamo con sano relax lo show di Azari & III, il concerto che non vorreste far vedere a Cassano visto il tasso mostruoso di gayitudine (però le radici house sono queste, e i nostri mezzo-sessuali le reinterpretano con verve e simpatia). Simpatici pure gli Hot Chip, che pure quando suonano i pezzi nuovi fanno ormai sempre lo stesso concerto; peraltro, divertente.
Alle due e mezza di notte il cambio di marcia arriva inaspettatamente da Mary Anne Hobbs: colei che è la madrina della scena dubstep decide quest’anno di venire al Sonar accompagnata da Blawan e i due si lanciano – soprattutto lei – in una selezione techno tesa, claustrofobica ed essenziale, tirando fuori ciò che più è marchiato dalla cassa dritta nei nuovi suoni che stanno emegendo dall’Inghilterra post dubstep. Concettualmente interessante, i dischi scelti dalla Hobbs erano più belli, quelli scelti da Blawan erano mixati meglio. Ad un certo punto li abbandoniamo: andiamo a vedere la serie di set legati alla Hyperdub, la riverita etichetta di Kode9, altro nome sacro per ciò che è (post) dubstep. Nome sacro, ma stavolta deludente assai: il live di Cooly G è una delle cose più noiose ed inutili che abbiamo mai visto negli ultimi dieci anni (un karaoke malinconico da film di Cassavetes ambientato nel nuovo millennio: se siete un sacco intellettuali vi può affascinare, se siete giusto normali vi fate due palle tante), il set di Kode9 è interessante ma un po’ troppo caciarone. Anche lui si butta spesso e volentieri a citare il mainstream più crasso, in ciò che suona, e comunque si tiene molto uptempo – se c’avessero detto che quello in consolle non era lui ma un Diplo un po’ ubriaco di mojito c’avremmo creduto. Boh. Steve, occhio: il credito acquisito negli anni non è eterno. Urge rimettersi in carreggiata, questo tentativo di un “recupero intelligente” alle sonorità uptempo da party si sta rivelando, per te, un vicolo cieco.
Gente che non è in un vicolo cieco ma si è infilata in un’autostrada che porta al trionfo sono i Modeselektor: l’esibizione al Sonar di fronte ad una folla oceanica sancisce degnamente un’ascesa, quella dei due tedeschi, che è tanto eccezionale quanto meritata. E’ ormai elettronica da stadio, la loro, ma riesce ad esserlo senza perdere un’oncia in qualità ed intelligenza: l’impatto del loro live sul Sonar 2012 è devastante. La cosa giusta al momento giusto. Difficile schiodarsi da lì, men che meno pensando che l’alternativa è Deadmau5 (buttato un orecchio in sala: tra l’inutile, il brutto e il pacchiano). A chiudere il tutto ci pensano Luciano in una sala (per quelli che “a Ibiza hanno inventato la techno e suonano i più bravi”: seh, credici) e Laurent Garnier con L.B.S. in un’altra (per quelli che invece qualche nozione di base in più ce l’hanno). Per capire quanto siano state belle cose, soprattutto la seconda, basta vedere l’entusiasmo dei post di Garnier su Facebook.
Ci dicono che gli abbonamenti a prezzo ridotto (100 euro) per il Sonar 2013 siano già esauriti: nulla di strano. Continua infatti ad essere il festival con l’equilibrio migliore tra ricerca, sperimentazione, grandi divertimenti e adunate epocali di clubber in festa, lì dove altri eventi spesso e volentieri puntano solo su due di questi quattro elementi. Questa edizione non avrà offerto nulla di nuovo, ed è effettivamente così, ma come e più di altri anni è stato un luogo dove stare bene. E capire perché la musica elettronica e la scena che la accompagna possano essere, nonostante tutto, forse la cosa più bella e stimolante in cui nuotare nel nuovo millennio, soprattutto se non ci si accontenta delle solite liturgie (indie) rock.