Dalle radici profondamente radicate nel Salento alle luci della ribalta Hollywoodiana passando per Milano, Rocco Rampino è riuscito in pochi anni a ritagliarsi uno spazio di rilievo nella scena dance internazionale anche grazie alla sua capacità di spostare la sua base operativa a seconda delle sue esigenze lavorative. Eclettico come non mai, riesce a fare tesoro di tutto ciò che le sue esperienze gli hanno permesso di assimilare per influenzare le sue produzioni e i suoi set. Nonostante sia stabilmente trapiantato negli States, l’estate la passa ancora nella sua Terra, dove oltre alla residency estiva per le serate Diabolika al Cocoricò di Riccione si è esibito anche sul “campo di casa” del Casablanca a Porto Selvaggio l’11 Agosto durante il Day Off Music Days.
Un successo globale consolidato, un’estate ricchissima di date ed un nuovo album in arrivo: cos’altro può chiedere un ragazzo di Lecce emigrato in California?
E’ stato un anno molto positivo e intenso! Sono ancora in modalità “album”, che spero di avere pronto entro la fine dell’anno, e sto già pensando al tour promozionale di supporto del disco. Le serate e gli spostamenti prendono parecchio tempo ed energie, spero di poter rimettermi in studio al più presto per trovare una routine che mi permetta di essere più prolifico.
Ma partiamo proprio dalle tue origini: da chitarrista punk a dj. Come hai approcciato le sonorità electro? Hai avuto influenze particolari che ti hanno portato a far “scattare” qualcosa nella tua testa?
Ho cominciato ad ascoltare hardcore punk e musica elettronica praticamente contemporaneamente, verso i 13 o 14 anni, ma ad essere onesti ho sempre cercato di seguire ogni genere musicale. Le mie esperienze nei gruppi sono state fondamentali e indimenticabili perché condivise con i miei migliori amici, e anche perché mi hanno insegnato a gestire la mia attività musicale con spirito di iniziativa e intraprendenza. Il mio background musicale appartiene al mondo dell’autoproduzione, per cui sin da giovanissimo ho seguito in prima persona tutto ciò che riguardava la musica dei miei gruppi: la registrazione, la stampa del disco, la distribuzione ed i tour. Quando a un certo punto, per motivi di lavoro, ho dovuto dire stop a questa fantastica esperienza, mi sono ritrovato in una nuova città, Milano, dove conoscevo poche persone e l’unico modo per poter rimanere attivo creativamente era quello di fare musica da solo, col mio computer. Da lì ho mosso i primi passi con la produzione di musica elettronica, e dopo i primi riscontri positivi ho deciso di mollare il lavoro e concentrarmi completamente su questo progetto che da allora va avanti, sempre meglio.
La scena milanese è stata sicuramente la culla italiana di quella sinergia fra elettronica e hip hop che prende il nome di Fidget House. Come è stato per te essere parte integrante di questo fenomeno nascente e quanto la sua diffusione ha inciso sulla la tua concezione di musica?
Sono convinto che non sarebbe stato facile emergere se non avessi cominciato da Milano, che è una città molto ricettiva per nuove tendenze. C’è stato movimento sinergico tra musica, moda e anche editoria “di tendenza”, che sono andate in un’unica direzione, facendo diventare la dance music qualcosa di mai visto prima di allora, almeno in Italia. Innanzitutto coinvolgendo un pubblico nuovo, proveniente dal rock, e io ne sono la prova lampante. Si è creato un bel giro di produttori e dj con cui poi sono diventato grande amico, i Crookers, Nic Sarno, His Majesty Andre, Gigi Barocco, i Reset!; stranamente non ci conoscevamo tutti sin dall’inizio, ma è stato esaltante trovarsi a fare le stesse cose e nella stessa città.
Plastic, Sottomarino Giallo, Rocket, le serate WonKa all’Amnesia sono solo alcune delle situazioni in cui la Fidget ha fatto breccia nel cuore della Capitale Lombarda. In quegli anni quale era secondo te il club meneghino che meglio rappresentava il tuo modo di vivere il club?
Difficile rispondere…Credo che il Plastic sia stata la roccaforte più esclusiva delle nuove tendenze, per cui ha dato spazio agli artisti della mia corrente con l’appeal fashion/extramusicale più spiccato, tipo Uffie e Kavinsky. Non credo che abbia avuto il merito di rendere il genere popolare o sdoganarlo alle masse, non credo neanche onestamente che fosse nelle loro intenzioni, d’altro canto è un club che per 30 anni ha segnato il clubbing a Milano in altri modi e con altri prodotti. Il Sottomarino Giallo è stato il club milanese dove ho avuto la mia prima formazione da dj, dj inteso come due Technics, mixer e vinili. Ho passato dei venerdì indimenticabili alle serate Discolimone, ero talmente esaltato che il giorno dopo mi fiondavo in centro a spendere gli ultimi soldi rimasti del weekend per comprare nuovi dischi. Il Rocket per me è come una casa, sarò sempre grato al suo gestore Massi per aver creduto in me sin dall’inizio e per avermi anche lasciato la possibilità di togliermi delle belle soddisfazioni nel suo locale dopo i primi successi. Se dovessi organizzare la mia prossima festa di compleanno, la farei al Rocket. E’ già successo, fra l’altro. La serata Wonka è stata una serata che ha consacrato il genere per un pubblico più ampio e in una location più grande, l’Amnesia. Ci sono stati ottimi riscontri per i big italiani come Crookers e Bloody Beetroots, mentre con gli ospiti esteri la risposta del pubblico ha dimostrato che la scena era ancora acerba e non pienamente consolidata. Ma credo che sia un discorso valido tuttora per ogni club in Italia.
A un certo punto però è cambiato qualcosa, il fenomeno Fidget si è espanso ed è stato un incredibile trampolino di lancio per ragazzi volenterosi come ad esempio i Crookers e i Bloody Beetroots ed ovviamente per te. Com’è per un ragazzo ritrovarsi in pochi mesi da fenomeno locale ad astro nascente internazionale?
L’interesse dall’estero mi ha fatto capire che quello che stavamo realizzando aveva del potenziale, e per un buon periodo devo confessarti che comunque ci siamo sentiti degli stranieri in patria, nel senso che i riscontri all’estero erano sproporzionati rispetto a quelli in Italia, ma è stata una cosa che personalmente mi ha motivato ancora di più nel credere in quello che stavo facendo. C’à stato un interesse generale per il sound electro italiano, avevo la sensazione che essere un dj italiano fosse un valore aggiunto agli occhi di un’etichetta o un promoter statunitense. Basti pensare che io ho avuto il contratto discografico con Fool’s Gold dopo aver pubblicato la mia prima traccia in free download per un blog svedese, Discobelle. Per me è successo davvero in maniera fulminante ed improvvisa, per certi versi è cambiato tutto nella mia vita, in termini di routine e di rapporti umani, dall’altro credo di essere sempre rimasto la stessa persona, ed è forse merito del mio background musicale di cui parlavo prima, un mondo basato sui rapporti umani prima ancora che quelli di business.
Passare dall’underground milanese ai grandi festival outdoor non è un cambiamento da poco, l’etichetta di artista da club cominciava a starti un po’ stretta?
Il riscontro dal mondo mainstream della dance è arrivato anch’esso in maniera inaspettata. Pensavo di avere prodotto una traccia troppo estrema e sperimentale, e per di più con un video davvero “dark” per gli standard della dance music (di solito bikini, party, champagne e cavolate varie). Invece il pezzo ha avuto supporto da David Guetta e Steve Angello che ci ha fatto una edit il giorno stesso che l’ha ricevuto. Senza volerlo avevo creato qualcosa che sembrava andare bene anche per delle situazioni big room o da mega festival all’aperto, e alle fine in queste situazioni mi ci sono ritrovato a suonare in prima persona. Non è stata una cosa programmata, però avere questo tipo di “seconda vita” a un certo punto del mio percorso è stato interessante, perché riesco a confrontarmi con due mondi diversi.
Quali differenti sensazioni provi nel suonare davanti a migliaia di persone rispetto all’intimità del club? Senti maggiornamente la pressione?
No, il pubblico di alcuni festival come il Tomorrowland, Pukkelpop, Sziget, EDC, ha un’energia incontenibile. Sono sensazioni nuove ogni volta anche per chi come me è dalla parte del palco a suonare. Il club ha una magia tutta diversa, non saprei dire se preferisco una cosa o l’altra.
Ed infine realizzi quello che negli anni ’60 veniva chiamato “California Dreamin’” e decidi di mettere radici a Los Angeles, questa scelta è stata figlia di qualche evento particolare? Milano e la scena italiana non erano più abbastanza stimolanti?
Dopo il contratto discografico con la Fool’s Gold ho passato un mese a New York, suonando di qua e di là, ero un neofita della scena. Volevo conoscere di persona tutte le persone con cui interfacciavo solo via email, altri dj, produttori, giornalisti ed è stato davvero come farmi catapultare in un mondo nuovo. Poi a un certo punto mi è arrivata l’offerta per una data al Cinespace di Hollywood, e appena arrivato all’aeroporto di Los Angeles ho sentito qualcosa dentro di me che mi diceva di non andare più via da quel posto. Una volta ottenuto il visto lavorativo ho deciso di trasferirmi in California, decisione instintiva e di “cuore” più che di pancia. Dettata più dal fascino subito dal posto che da stimoli professionali. Dopodichè ho assistito a un esodo impressionante di altri dj produttori che da NY si trasferivano anche loro a Los Angeles, per cui adesso è diventata la nuova mecca della musica elettronica. Adesso riesco a coniugare il piacere di vivere in un bel posto, con tutte le opportunità che questo offre giorno per giorno.
Quali sono le differenze sostanziali che hai trovato fra la scena Europea e quella Americana sia a livello organizzativo che di audience?
A livello discografico le etichette sono attrezzate meglio in termini di staff e promozione. Sanno bene come ottenere visibilità e interfacciarsi con la stampa, in un mercato talmente vasto che rende difficile emergere, per chiunque. Per quanto riguarda gli eventi, posso dire che il pubblico americano è più aperto e meno “talebano” rispetto a quello europeo. In Europa c’è una cultura di dance music più profonda e integralista, cosa che in certi casi significa semplicemente ottusa. In america c’è una fusione più libera di generi e tendenze, per cui nella stessa serata riesco a suonare da 110 a 130 bpm, e poi a 140, mixando diversi stili, senza aver paura di spiazzare il pubblico con un bootleg hip hop. A proposito di questo, faccio un esempio lampante. La vera chicca di un set in America, la chicca che fa ribaltare il club, di solito è un pezzo hip hop messo al punto giusto. In Europa quando ci ho provato ho avuto l’effetto esattamente opposto. C’è da dire che l’America rimane succube comunque delle tendenze europee, perché tutto parte comunque dalla scena elettronica europea, è stato sempre così e forse sarà così anche in futuro. Il gusto europeo, e la cultura che menzionavo prima, sono qualcosa di cui si sente la mancanza in america. Anche la cultura del warm up dj set è una cosa che gli americani farebbero bene a imparare dagli europei.
Finalmente in inverno uscirà il tuo primo album su quella Ultra Records che annovera veri e propri fenomini di vendita come Tiësto, Benny Benassi, David Guetta, Deadmau5, Ferry Corsten, Paul Oakenfold e molti altri. Essere accostato a nomi di questo calibro risulta essere un “peso” oppure uno stimolo a livello psicologico?
Per me è la dimostrazione che sto creando qualcosa di valido. Il primo segnale è il fatto che questi grossi dj supportino la mia musica, quindi posso dire che è un avvicinamento reciproco, segno dei tempi che cambiano e che le nuove tendenze, se di qualità, riescano ad imporsi in ogni ambito, dettando nuovi canoni estetici.
Al giorno d’oggi capita sempre più spesso di trovare grandi produttori che si improvvisano dj per farsi maggiormente conoscere dal pubblico. Tu sembri una grande eccezione in questo senso, nei primi anni di carriera ti sei sempre concentrato più sul “mettere i dischi” che sul produrli nonostante i tuoi pezzi come ad esempio Babylon avessero ricevuto ottimi feedback da parte di artisti di livello mondiale. Come mai questa scelta?
Io nasco dj in quanto amante della musica, il mio primo contatto con la dance è stato l’ascolto e il djing di conseguenza come tributo a quello che ascoltavo. Non pensavo onestamente di avere del potenziale come produttore, perché prima di Congorock mi ero solo cimentato con chitarre e pianoforti. E’ stato Bob dei Bloody Beetroots a darmi gli stimoli per proporre quelli che erano solo dei demo sul mio computer. Se non fosse stato per lui, sarebbero rimasti tutti progetti incompiuti. Visti i primi feedback e come sono andate poi le cose, ho deciso che fosse era la strada giusta!
Ma torniamo a parlare del tuo album: sappiamo che ti sei recentemente recato in Jamaica per collaborare con artisti locali nella lavorazione del disco. Cosa dobbiamo aspettarci dalle tue prossime produzioni?
Ci saranno dei pezzi cantati con un’impostazione più da ascolto e altre mine da club, al momento sto cercando di dare un’impronta estetica al disco con dei pezzi non esattamente dance, per fare capire la mia visione dell’elettronica anche fuori dalla cassa in quattro. Il disco è quasi pronto, mancano i dettagli!
Nonostante le sessioni in studio la tua personalissima estate toccherà 3 continenti e prevede più di 30 date in soli 3 mesi tra cui un tour asiatico a settembre, praticamente una gig ogni 3 giorni. Quali sono i lati positivi e negativi nel vivere a ritmi così frenetici?
Mi ritengo una persona estremamente fortunata. Fare il mio “mestiere”, viaggiando nel frattempo, è un sogno. A volte mi sento a casa ancche quando sono in tour, è come se fosse un’altra dimensione in cui però mi sento completamente a mio agio. D’altronde è quello che ho sempre voluto fare nella vita. Gli aspetti negativi consistono nella mancanza di routine che impedisce qualsiasi tipo di rapporto umano stabile, dagli amici alle fidanzate. Questa mancanza di routine porta con sè anche una dieta basata prevalentemente su fast food che a lungo termine, ha un risultato ingombrante: la pancia!
Nonostante la tua base logistica sia negli States quest’estate sarai resident in molte delle serate organizzate da Diabolika presso il famigerato Cocoricò di Riccione, come è nata questa collaborazione?
D’estate di solito passo in Italia il periodo di agosto, ma quando è arrivata l’offerta del Cocoricò di suonare a tutte le serate Diabolika, è stato difficile dire di no. Il Cocoricò è un club incredibile, e il suo pubblico è ancora più incredibile. Siamo a metà stagione ma posso già dire che queste siano le serate migliori che abbia mai fatto in Italia.
Che futuro prospetti per il tuo percorso musicale? C’è qualcosa che manca ancora per sentirti pienamente appagato?
Vorrei scrivere musica per videogames. Il futuro!