Lo dico ormai da parecchio tempo: non c’è modo migliore per farsi apprezzare dal pubblico che la creazione di un album. D’altronde non c’è (più) in giro un dj che sostenga di non essere anche un producer. I profili dei social network sono pieni di post (che cazzata sta cosa dello stato) tipo: “session studio” oppure “working 24/7 @ my next EP” (basta EP!) eccetera. Bene, davvero questa è la vostra vita? Allora fatevi sentire. E fateci sentire. Come fanno i Dachsund.
Chi di voi conosceva Dachshund? O i Dachshund? Io no, lo ammetto. Avrei dovuto informarmi come e faccio di solito con chi non conosco – lettura bio e presskit e/o pressrealese – e farvi un bel preambolino su questo duo/trio o mono che sia con label di appartenenza (o scuderia), luogo di nascita e di residenza (i primi, per la cronaca, sono sempre diversi tra loro, mentre il secondo è quasi sempre Berlino) ma no… Non mi va. Il motivo? Non voglio sapere niente prima di ascoltare, e nemmeno dopo. Voglio scrivere libero da qualsiasi vincolo. E poi mi piace cambiare. E’ tutto là secondo me, anche nella musica elettronica.
Una perla, questo disco tendenzialmente house. Ma attenzione perchè qui si parla di house bella, house di quella che il 99% della gente non sa nemmeno di cosa stiamo parlando. House per la testa e per il cuore. Un disco da viaggio, da treno e riflessioni positive. Come le vibrazioni che emana questo disco favoloso. Poco bacino, pochissime gambe. “Ma allora non è house!”, dirà qualcuno. E invece si, specialmente il pronti via. Le prime quattro o cinque tracce (“Need You” e “Mosquito Cost” sono le più ballabili) sembrano qualcosa che io definirei house per cervelli fini. Ma lasciamo stare le definizioni e i nomi adesso. E’ solo bella musica. Un cd da far andare nello stereo dall’inizio alla fine. Disco da sentire a ripetizione, a tutte le ore.
L’inizio è andato. E la fine? La fine probabilmente è la parte migliore dell’album. “Voronoi Diagram” e “Fluid Escape” sono due pezzi assai diversi ma entrambi di splendida fattura, molto intriganti con ritmo e durata così diversi dalle canzoni iniziali. Il primo, che va verso una breakbeat più mozartiana che skrillexiante, è un inno ai tempi della vita che passano in fretta e non tornano più, ma che si modificano, e a volte è più bello così. Nonostante l’incedere del tempo. Il secondo pezzo, invece, con la sua cadenza techno (lenta, elegante) mi fa rivivere i fasti dei vecchi dischi della Kompakt e le atmosfere di certe notti al Fabric.
Un disco completo insomma, da assaporare con la testa sgombra e la pancia piena di note. Magari a notte fonda, possibilmente in qualche club che sull’altare della console sappia immolare un dj che di musica ne sappia almeno più di me (un augurio modesto), e che non avrebbe problemi a dirci se Dachsund è uno, due, tre.