Scrivere il report di un festival è un compito prezioso e la capacità di trasmettere ai propri lettori le situazioni vissute e soprattutto le sensazioni provate è sicuramente la parte fondamentale per non annoiare e rendere lo scritto il più piacevole possibile in modo tale da far immedesinare chi legge. Ecco, fino a qui niente di nuovo, direte voi. Non ho certo scoperto l’America con questa introduzione. Quello che ho appena sintetizzato però mi viene difficile applicarlo a questo report poiché se un qualunque lettore avesse vestito i miei panni durante questi 2 giorni, probabilmente non sarebbe riuscito a trovare granchè di positivo nell’esperienza che è stata questa seconda edizione dell’Alchemy Festival. Intendiamoci, lungi da me voler mettere in dubbio la buona volontà e l’indubbio sforzo economico e lavorativo che il buon Mauro Picotto ha professato per dare visibilità alla sua terra natia tramite questa manifestazione, anzi andando a paragonarla con la precedente (ed unica) edizione le migliorie e le correzioni ai classici errori che si possono commettere alla “prima volta” c’erano ed erano ben distinguibili anche ad occhi non particolarmente attenti od esperti. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di riordinare un po’ le idee descrivendo come appariva il Festival una volta giunti lì.
Lo spazio che ospitava la kermesse altro non era che uno spiano situato tra un campo di grano e l’altro a pochi km di distanza da Cavour, una piccola cittadina della campagna piemontese, location ideale per non “dare fastidio” ad orecchie cittadine troppo fini e (vista la durata di due giorni) magari anche per passare un weekend dividendosi tra il relax della campagna e la frenesia della cassa in quattro quarti. Rispetto all’anno precedente gli stage da 1 diventavano 2, un Open Air e un Indoor Stage, in modo tale da offrire un’alternativa musicale ed attirare un maggior numero di avventori. Il costo del biglietto era di 25 euro per ogni singolo giorno oppure di 35 euro per l’abbonamento ad entrambi. Prima di partire però noto un messaggio aggiunto sulla pagina Facebook del festival il giorno stesso che prevede per chi si recherà ai cancelli prima delle 20 una riduzione del prezzo da 25 a 15 euro, un segnale che chiunque capisca una minima le meccaniche di marketing basilare interpreta come allarme di scarsa vendita di ticket e oltretutto risulta essere una grossa mancanza di rispetto nei confronti di chi ha pagato il prezzo pieno acquistando la prevendita dando fiducia fin da subito agli organizzatori. Una volta raggiunto il parcheggio (gratuito) nell’area adiacente al festival (sono circa le 20.30) mi rendo subito conto che i miei timori sono fondati: dove sono le altre macchine? Eppure il festival doveva essere iniziato già da diverse ore… Tra me e me penso che magari non tutti avevano voglia di sentire i nomi un po’ meno conosciuti presenti nel pomeriggio e che forse si sarebbero avvicinati al festival dopo il calar del Sole (purtroppo sarà destinata a rimanere una mia convinzione). Eh si, perchè la dura realtà, quella chi rende così difficile raccontarvi questo Alchemy Festival è che la risposta da parte del pubblico che gli organizzatori si aspettavano (e che molto probabilmente si meritavano) non è giunta o forse non è stata recepita nel modo giusto da quello che era il target di pubblico per questo tipo di evento. E’ stato davvero un peccato vedere dj del calibro di Tobi Neumann, Stacey Pullen, Karotte, Dave Clarke e il redivivo Riccardo Ferri suonare davanti a mai più di un centinaio di persone. Come si può giudicare una performance senza una sua componente fondamentale come la risposta della pista? Certo, potrei dirvi che chiaccherare con Tobi Neumann del panorama Berlinese è un piacere senza fine, che Karotte è il solito frenetico showman e che il LIVE (scritto volutamente tutto maiuscolo) di Riccardo Ferri è un piacere tanto per gli occhi quanto per le orecchie. Personalmente sono però affezionato e assolutamente ancora legato al mio ruolo di “cliente prima che addetto stampa” e francamente i migliori ricordi della mia vita di Clubber sono stati vissuti davanti alla consolle piuttosto che dietro e sono derivati soprattutto da quel feeling tacito (ma neanche troppo) che si instaura tra il dj e la pista che gli si para di fronte, si tratti un sorriso ricambiato, di una scarica di ghiaccio secco gelido che ti arriva in faccia all’ennesima ripartenza e ti toglie il fiato per un secondo, magari di quel disco che hai comprato da poco e tanto ti piace ascoltare in camera messo su al momento giusto della serata. Quando tutto ciò non si verifica è dura trasmettere qualcosa a chi legge perchè in fondo si tratterebbe semplicemente di elencare ciò che si è potuto vedere da una prospettiva più ristretta, vorrebbe dire descrivere un tipo di approccio diametralmente diverso con l’inevitabile epilogo di far passare la voglia di leggere a chi non riesce ad immedesimarcisi. E allora cosa è andato storto? Perchè è mancata la risposta del pubblico? Le motivazioni possono essere molteplici, quello che spiace è che ciò che di buono era stato fatto per migliorarsi dopo la prima edizione è stato vanificato da un’affluenza nettamente inferiore alle più funeree aspettative. Sicuramente il periodo scelto era abbastanza delicato essendo a cavallo tra la chiusura della stagione estiva e il via di quella invernale (l’anno scorso in estate la risposta del pubblico nonostante un’offerta musicale inferiore rispose eccome, forse era giusto mantenere la stessa data), forse è stata fatta troppa poca pubblicità all’esterno del territorio piemontese visto che a parte gli addetti ai lavori credo che in tutto il Festival gli “indigeni” si contassero sulle dita di una mano (e considerato l’appeal che certi nomi hanno nei nostri lidi questo vuoto sembra quasi paradossale). Forse semplicemente la location era troppo “scomoda” per attirare anche i semplici abitanti torinesi che avevano invece affollato in estate il più vicino Future Festival a cui questo Alchemy (a mio modo di vedere avendo partecipato ad entrambi) non aveva poi molto da invidiare. L’unica critica vera che mi sento di fare è legata alla scelta di affidare la domenica le sorti di uno stage intero ad Albertino, che ha sicuramente riscosso enorme successo nel corso dei suoi 30 anni di carriera radiofonica ma che nelle piste abitate anche da chi non mastica clubbing 24/7 ha preso sempre e solo sonore bordate di fischi. Che senso ha proporre a pochi metri di distanza Joseph Capriati e Len Faki che suonano techno con la T maiuscola e dj semi-sconosciuti che suonano commerciale che neanche il peggior Afrojack? Il risultato è che lo stage in questione è stato “soppresso” all’ora di cena, cercando di concentrare il pubblico sulla sala interna. Forse questo è stato il vero errore di una gestione “familiare” (quasi tutte le persone che hanno organizzato, collaborato o semplicemente aiutato erano abitanti dei paesi limitrofi) ma non per questo inesperta e io mi auguro di cuore che questa battuta d’arresto non smorzi l’entusiasmo e la passione che per quanto mi riguarda sono state tangibili in ogni momento di questi due giorni. Ci si vede (spero) alla prossima edizione! In bocca al lupo!