Forse voi non dovreste leggere queste righe. E noi non dovremmo scriverle. Forse sarebbe meglio un rigoroso silenzio, affidarsi solo al passaparola sotterraneo – sperando per giunta che quest’ultimo funzioni il meno possibile. Forse. Ma forse anche: quando c’è una bella cosa, ciò che bisogna fare è condividerla, no? Spiegare cioè il perché di questa bellezza, sperando che faccia da esempio, sperando che almeno due o tre principi si infilino nella zucca di chi usa la musica elettronica e i festival ad esso collegati 1) o come un vestito alla moda da indossare per sentirsi più fighi 2) o come un tamarrodromo per strafarsi nel modo più stupido, vuoto e soprattutto conformista possibile.
Sia come sia, a metà settembre 2012 ci siamo ritrovati, per tre giorni, più o meno su Marte. Difficile definire altrimenti questo nostro weekend. Sarà che si era in Cornovaglia, a sette ore di bus da Londra, terra di verdi colline ma anche di misteri e di traveller; sarà la vicinanza di Newquay, amena cittadina colonizzata da surfisti ma che, come tutte le città da vacanza balneare, a fine stagione mostra un’anima tra il malinconico e il metafisico, con le ultime coppiette di fieri proletari inglesi che passeggiano per il centro con aria incazzosa (lui) e sconfortata (lei), tutto molto English; sarà che una spiaggia come Finstral Beach fa veramente impressione, coi suoi chilometri di sabbia circondati da scogliere e le onde impetuose ad assaltarla. Non Berlino insomma, non Barcellona.
Ma ciò che veramente era atipico, era racchiuso negli spazi del Trevelgue Holiday Park. A cinque chilometri da Newquay, ai piedi di una collinona adibita a pascolo con le mucche che paciose ti dominano con lo sguardo, un posto dove fare camping e soprattutto dove alloggiare in una schiera di centinaia di roulotte. Ecco, questa la sede del Bangface Weekender. Festival nato sull’onda di un appuntamento londinese in vari club dall’indirizzo musicale piuttosto preciso: quell’”hardcore continuum”, per dirla con Simon Reynolds, che parte dall’acid house e dell’electro-IDM per arrivare alla techno (anche e soprattutto quella più dura) ma pure alla gabber, al breakcore, alla drum’n’bass old school, fino al ragga e, cinque minuti al giorno, al dub. Unica concessione alla (semi)attualità, un po’ di dubstep – ma poca – e un po’ di gente dal talento cristallino e dal piglio giusto, ovvero scanzonato e creativamente debordante, vedi Dorian Concept.
Insomma, la cosa meno alla moda del mondo. Una nicchia musicale. Anzi, una riserva indiana. La cosa meno Ibiza 2012 che possiate immaginare; ma forse la cosa più Ibiza 1988 che ci sia oggi – nel senso che qua c’è un amore naturale, candido e spontaneo per la musica e soprattutto per un certo tipo di vibrazioni, quelle in cui la musica elettronica era fanciullesco divertimento e non edonismo… o meglio, l’edonismo è una conseguenza, non uno scopo. C’è una cosa che fa capire quanto tutto ciò sia vero: una delle abitudini nel Weekender è arrivare mascherati, o comunque vestiti in modo assurdo. Il punto è che lo si fa per divertimento, non per ostentazione o narcisismo: prova ne sia il fatto che le macchine fotografiche sono praticamente assenti, o rivolte al massimo verso il palco, non verso la gente. Eppure vi giuriamo che a fotografare le 4/5000 persone che hanno colonizzato il Trevelgue Holiday Park si poteva crare il book fotografico più fantastico del mondo, superando a sinistra qualsiasi pubblicazione o reportage hipster (provate a fare un passo al Primavera Sound o anche solo all’italiano Mi Ami: ci sarà sempre un sedicente fotografo o fotografa a scattare foto agli outfit, mannaggia a loro).
Non vi basta? L’altra prova è che il Bangface non ha un ufficio stampa, non fa girare comunicati (tranne quello che scrive sul proprio sito o sui propri social), non ama finire sui media. Un gioioso suicidio mediatico, consapevole ed intenzionale. Vuole essere un best kept secret. E lo è. Lo è in particolar modo per noi italiani, sempre pronti ad invadere le isole baleariche, le capitali catalane, le metropoli tedesche, ma incredibilmente assenti qui: saremo stati in tutto in venti a esser larghi, compresa una nostra amica che vive a Londra già da anni, era nel team storico di Dissonanze e da sempre accompagna la produzione del Weekender. Ok, non è bello, ma scatta il pensiero: meglio così. Perché ti immagini che se gli italiani ci fossero – quegli italiani che sei abituato a vedere al Watergate – non capirebbero lo spirito del festival, si troverebbero a loro disagio sia musicalmente che umanamente; e se invece ci fossero quelli che abitualmente ascoltano techno / acid / breakcore / jungle / drum’n’bass / electro, beh, avrebbero i dread, dei cani molesti, molta maleducazione, una minima capacità di reggere la chetamina e una ancora più minima lucidità per godersi la musica.
Già, la musica. Fantastica quella che abbiamo sentito in tre giorni. Fantastico è stato il set dell’unico protagonista di questo “hardcore continuum” che si è ritagliato una icona mediatica, e che icona: Aphex Twin ha tirato fuori uno dei migliori set che gli abbiamo sentito fare negli ultimi anni. Nulla di nuovo sotto il suo cielo in realtà, ma quello che fa continua a farlo meglio di tutti e i dieci minuti finali in cui ha “ammazzato” la platea con una scarica ad alzo zero di noise e speedcore sono stati un’apoteosi per nulla scontata. Ancora meno scontato ciò che ha fatto μ-Ziq alias Mike Paradinas alias il capo e fondatore della Planet Mu (che tristezza pensare che c’è gente che ha scoperto la Planet Mu solo con Kuedo e il footwork): ha regalato un set sognante, sospeso, pieno di armonizzazioni aeree IDM – scelta apparentemente suicida in una folla che a occhio era lì per l’hardcore e gli amen breaks, invece è stato apprezzatissimo. Hardcore e amen breaks che invece erano il Verbo per Venetian Snares, Bong-Ra, Hellfish & Producer, ma anche per la crew Amen All Stars (nomen omen) o nel pomeriggio domenicale della Smash Sessions.
I primi anni ’90 più IDM, tra electro ed armonizzazioni intelligenti, sono stati rappresentati dallo showcase della Rephlex, l’etichetta di cui Aphex è co-proprietario, in cui hanno brillato i nostri D’Arcangelo (bravissimi, da sempre, eppure in Italia non se li fila nessuno), ma anche dal live degli 808 State, il gruppo più sottovalutato di tutti i tempi (ci sono più idee nel loro “90” del 1989 che negli ultimi dieci anni di release elettroniche…) e che live sceglie una via più muscolare che elettronica, con un batterista della madonna e strumentisti che sanno il fatto loro, dando una resa suonata live assai convincente delle loro hit che sono quasi tutte sample- e software-based.
Una compagnia così felicemente fuori dal tempo e dalle mode ha fatto bene pure a Dave Clarke, che ha tirato fuori un set della techno davvero ottimo, con anche più di un rimando a pietre miliari ai limiti dell’industrial ma con comunque molta forza e molto impatto. Uno dei suoi migliori set che ci sia capitato di sentire, a occhio si è divertito molto anche lui. L’abbiamo perfino visto sorridere, una volta. Techno d’altri tempi anche per Mark Archer, col progetto Liquid-8, sempre d’altri tempi ma non solo techno – un bignami dell’elettronica “creativa” – il set di Luke Vibert.
Altre cose ce le siamo perse. Anche perché era troppo divertente passeggiare per le roulotte e per il camping, vedere i sound system che la gente si portava dietro, osservare i costumi più folli (da gente che si è vestita da omino Lego a ragazze inglesi con la maschera di Berlusconi, il gessato da mafioso e al collo il cartello “BANGA BANGA”), farsi cullare da un’onda musicale diffusa di una musica che in Italia non si sente quasi mai, o ti tocca sentirla in centri sociali tristi dove sono tutti, inspiegabilmente, ingrugniti. Il presobenismo, al Weekender, invece è una regola. Ventiquattro ore su ventiquattro, perché non ci si ferma mai, con la scusa che si ha un villaggio turistico tutto per sé e quindi non puoi rompere le scatole a nessuno.
Insomma, l’avete capito: un’esperienza atipica, un’esperienza più unica che rara. Completamente e volutamente fuori dal tempo. Speriamo di avervi incuriosito, speriamo di avervi appassionato; ma se così è, siamo convinti che voi per primi abbiate capito che il Bangface è una cosa da maneggiare con cura, un evento molto particolare, da non affrontare secondo le chiavi interpretative, stilistiche e comportamentali che si usano abitualmente oggi. Una riserva indiana felicemente fuori dal tempo – tale deve restare, tale vuole restare. Se decidete di approcciarvici, fatelo con rispetto. Con smodato, fanciullesco senso del divertimento, ma con rispetto.