Festival importante vuole report lungo: e quello su Club To Club, come potete vedere, è un report decisamente lungo. Ci siamo sdoppiati: prima la parola a Mattia De Paulis, che si è percorso in lungo e in largo per quanto ha potuto il festival, e poi a Damir Ivic, che oltre a fare l’inviato per Soundwall doveva smazzarsi altri compiti assortiti e a cui, quindi, è stata data la parola per secondo, per alcune integrazioni e alcune note a margine. Una cosa è certa: è stato complessivamente un bel festival. Se c’eravate, lo sapete. Se non c’eravate, l’anno prossimo siateci.
Son ormai tre anni che non salto appello alla settimana dell’arte contemporanea di Torino: Artissima, Paratissima, Club To Club, The Others, Luci d’Artista, più una miriade di altri piccoli eventi spontanei invadono la città e la animano di scintille di futuro.
La prima cosa che salta agli occhi è che il Club To Club non è un evento chiuso in se stesso, ma perfettamente adagiato in una rete di contemporaneità che unisce la città, le amministrazioni locali (provinciale e regionale), i diversi eventi, le realtà organizzative ed un pubblico oramai maturo ed altamente ricettivo. Una situazione forse unica in Italia che colloca Torino e le sue manifestazioni in una dimensione decisamente europea ed il C2C tra i maggiori festival di musica ed arti elettroniche per numeri e qualità dell’offerta musicale, subito dietro a colossi come Sònar, ADE e pochi altri.
L’attitudine internazionale, dopo la scorsa edizione passata per Istanbul, è confermata dalla preview londinese che ha fatto da vetrina ai talenti più luminosi del Belpaese (Baldelli, Lory D, Lucy, i sempre più emergenti One Circle) ma anche dalla rinnovata coalizione con Milano, città complementare a detta di Sergio Ricciardone, art director del festival. Il pubblico continua ad essere prevalentemente italiano, ma cominciano a notarsi sfumature per lo più dalle vicine Francia e Spagna e dalla Turchia. Insomma, la strada imboccata sembra essere quella giusta. Altro ingrediente segreto è il gusto: fattore che i ragazzi dell’organizzazione non hanno mai utilizzato in maniera retorica o autoreferenziale, ma che neanche hanno mai voluto sacrificare in nome dei grandi numeri, dimostrando che con la giusta perseveranza e con scelte oculate e mai banali si può perseguire un obiettivo che sembrava altresì utopico e invece non si è rivelato tale, fino a raggiungere le 30.000 presenze di quest’anno, dislocate su 14 location.
Ma immergiamoci finalmente in quello che è il cuore del #C2C12, la musica. Giovedì grand opening del duo Jeff Mills/Claudio Sinatti per la prima mondiale di Event Horizon, set che ho avuto il casuale onore di seguire con Giorgio Valletta (storico dj nonché parte fondamentale dell’organizzazione del festival) che mi ha gentilmente spiegato come una delle motivazioni da cui parte l’idea di questo progetto e la ormai abitudinaria scelta della location sia quella di rendere l’elettronica transgenerazionale: infatti nello storico Teatro Carignano, tirato a lucido nelle sue tinte oro e porpora ed illuminato all’esterno da una speciale opera di Luci d’Artista, il pubblico era più misto che mai, tra giovani clubbers rumoreggianti, addetti ai lavori e personalità più o meno adulte e più o meno politiche (vedi anche il sindaco Fassino). Jeff con la sua inseparabile Roland TR909 coadiuvata da due moduli (modulari?) ha sfornato un live set inevitabilmente ma anche sorprendentemente (data la situazione) techno, fatto di ritmi secchi, frustate, clap e casse asciutte intelaiate su sequenze minimali che non sempre si sono fuse al meglio col progetto visuale appositamente costruito da Sinatti (controllato tramite 5 ipad!) per dialogare coi suoni stranianti dell’alieno detroitiano. Il risultato è stato sorprendente in principio, ma abbastanza noioso nell’arco delle due ore; forse un’ora sarebbe stata sufficiente, ma come detto in precedenza siamo alla prima assoluta, quindi tempo per accorgimenti e per migliorare l’armonia dell’opera ce n’è. Interessante anche lo show del torinese Mohko per il PiemonteGroove Young Talents nel vicino Lapsus, ma non esattamente godibile a causa dell’impianto non all’altezza: da rivedere.
Arriva venerdì ed è già tempo di scelte: serata Hyperdub all’Hiroshima, Mills bis per 20 Years of Axis allo Chalet o Clockwork e Mano Le Tough al Fluido/Gamma? Opto per la prima perché si rumoreggia una sorpresa. Che infatti non manca: Kode9 mattatore della situazione ci delizia con mezz’ora di inediti di Burial, preludio del nuovo album del misterioso Will Beaven, che qualcuno comincia a sospettare sia in realtà lo stesso Kode9. Chicca che si rivelerà poi l’unica nota totalmente positiva della serata, dato che il set di Actress, di gran lunga il migliore, avrebbe meritato il palco principale, mentre Laurel Halo con le sue intriganti tessiture intimistiche sfociate in un finale dai sorprendenti ritmi drum’n’bass e jungle, avrebbe approfittato al meglio del calore della Sala 2, che poi si è a sua volta rivelata scomoda (questioni di spazio) per il giovane lanciatissimo duo Disclosure, che ha dovuto rinunciare all’annunciato live set in luogo di un non esaltante dj set.
DVA si è fatto notare più per l’omaggio a Mortal Kombat (qualcuno di voi ricorda Rayden?) e gli eccentrici occhiali arrivati dal futuro che per il resto, mentre Mr. Hyperdub Kode9 ha snocciolato tutta la sua dotta sapienza musicale in un crossover hip-hop, garage house, footwork e jungle dalle cadenze dub lungo oltre tre ore, con tanti alti e bassi. Probabilmente anche la non eccezionale affluenza di pubblico ha impedito che l’energia esplodesse del tutto.
Il tempo di una bella dormita ed un buon boccone e siamo di nuovo in giro. Stavolta è di dovere fare un salto alla fondazione Re Rebaudengo, quartier generale del festival ma in realtà un po’ lontana dai luoghi centrali della manifestazione, particolarità che ha fatto sì che vi si recassero per lo più addetti ai lavori e grandi appassionati; nulla di grave, anzi data la capienza forse è stato meglio così. Ad attenderci il live di Kuedo (finalmente un pò di Planet Mu in Italia), già guest star della preview londinese, stavolta accolto nella piccola “box” della fondazione. Meno male che ci siamo messi in fila perché la sala si è riempita in un baleno e quello a cui abbiamo assistito è stato uno dei migliori act in assoluto, roba che quasi ci si alzava a ballare sulle poltrone! Una citazione la meritano anche i visual, handmade, apparentemente semplici ma in perfetto connubio con la musica del nostro, a dimostrazione ancora una volta come ormai queste forme grafiche stiano diventando sempre più un ingrediente fondamentale per la piena godibilità delle performance di musica elettronica (e qui al #C2C12 con il super innovativo progetto di FlyLo, Layer 3 e l’accoppiata Sinatti-Mills di certo non si sono fatti mancare nulla sul tema).
Un salto alle ex carceri per The Others e poi via di corsa al mega rave autorizzato nell’algida ambientazione dell’immenso Padiglione1 del Lingotto Fiere con un cuore di sauna rossa grosso e caldo e pulsante così (la Sala Rossa è infatti un cilindro di metallo rosso calato in un angolo dell’immenso padiglione, dall’acustica perfetta ma dalla temperatura interna saunesca). Eccoci arrivare appena in tempo per One Circle, finalmente ce la faccio a vederli dal vivo!, ne sentiremo parlare sempre di più ed ancora per molto. Inizio il mio rimbalzare da pallina impazzita tra il main stage ed il palco della Red Bull Academy (complimenti tra l’altro all’organizzazione per questa collaborazione che assicura visibilità ma soprattutto qualità garantita al 100%).
E così a sorpresa vedo un Clark che esplode un set techno ritmato e potente al quale poi s’è dovuto adattare anche Apparat, con linee noisy filtrate in apparat sound, e lo storico producer britannico Scuba, che pare aver definitivamente abbandonato la dubstep in favore di una techno sempre più berlinese, perfettamente a suo agio con le aspettative del pubblico del palco principale, pubblico a cui poi ho dato l’addio per trasferirmi nella superhot Sala Rossa dove SBTRKT in rigorosa maschera tribale ha aperto il suo set di hip-hop destrutturato con la bellissima “Shipwrek” (Modeselektor feat. Thom Yorke), seguito poi da Rustie con le sue consuete e profonde bass line sparate a tutta e Ital di cui purtroppo ho un ricordo un po’ vago e confuso (?!).
Infine Shackleton, a chiudere il cerchio con un set memorabile, tribale, sviluppato su infiniti livelli, capace di scomporre i cervelli delle gaudenti vittime danzanti, come in un rito tribale. Un set intricato e cerebrale, dai bassi pieni e potenti che non provenivano nemmeno dal centro della Terra ma proprio da nessun luogo fisico: mentali, privi di corporeità, svaniti col terminare della serata, risucchiati insieme alle nostre anime dall’impianto audio come se non fossero mai esistiti. Stregoneria pura.
Non è finita qui però, perché la chiusura di Shackleton altro non era che il preludio dell’altro rito voodoo, il principale, quello più atteso sin dall’inizio, il rito dei riti che ci aspettava la sera successiva nella sala del Teatro Della Concordia a Venaria Reale (cambio di location in extremis per la grande richiesta di biglietti ma anche per le esigenze tecniche dello show, leggi dimensioni del palco). Così dopo il meritato riposo, qualche tomino al verde e del carpaccio di vitello in salsa tonnata accompagnati da un buon bicchiere di Barbera d’Asti, un amico mi accompagna gentilmente all’iniziazione.
Sì, iniziazione. Steve Ellison aka Flying Lotus ci ipnotizza per mai più mollarci, scagliandoci in un melting pot dai connotati r&b, dubstep e hip hop, con punte di jungle e drum’n’bass a rendere il piatto ancor più saporito. FlyLo suona immerso nel mezzo di due teli dove si appiccicano elaborazioni grafiche in movimento con effetti 3D a dir poco sensazionali, davvero un gran lavoro anche scenografico, per nulla scontato.
La raffinatezza e la pulizia abbinate alla potenza di questo progetto gli permettono di toccare apici raggiunti da pochi in precedenza (e mai da lui). Andare oltre mi sembrava superfluo quella sera, così “saluto” Kode9 (arieccolo!) che aveva l’onore di chiudere il festival e mi metto in coda per salire sulla navetta direzione Torino, con la netta conferma che lì qualcosa sta realmente accadendo. In attesa allora del prossimo novembre…
Mattia De Paulis
Giusto alcune considerazioni a margine, dopo che Mattia si è smazzato il grosso del report su questa edizione di Club To Club, fornendo un quadro vivo e preciso su cosa è successo quest’anno. Fra i suoi spunti, merita un approfondimento quello sulla “dimensione internazionale” di Club To Club. Dimensione che il festival ha sempre perseguito, in questo aiutato da uno spirito – quello di Torino – che si è sempre sentito molto proiettato verso la Francia o comunque non verso Milano, con le altre città italiane che erano e sono viste come remote ed irraggiungibili. Va detto che Club To Club quest’anno ha fatto anche investimenti importanti per avere la presenza dei più qualificati media stranieri di settore al festival (da Resident Advisor in giù), “coccolandoli” oltremodo. Una scelta interessante e anche condivisibile, lì dove pensiamo che gli eventi culturali italiani – C2C ormai infatti ha tutto per uscire dalla nicchia/ghetto di evento di musica elettronica per diventare evento culturale tour court – di solito investono queste risorse nel trattare bene e lisciare il pelo ai media generalisti di casa nostra. In soldoni: invece di investire 100 per avere un passaggio sul TG1, il festival ha investito 10 per essere presente sui siti web di riferimento per le nuove musiche stranieri. Insomma, basta dare principeschi privilegi agli inviati delle tv o dei quotidiani nazionali, per avere in cambio comunque poca esposizione (perché la musica elettronica non è cultura, per i caporedattori di casa nostra…) e quella poca spesso scritta molto male e con strafalcioni imbarazzanti. La sfida di farsi conoscere all’estero è riuscita. Ora la nuova sfida, molto più improba, potrebbe essere quella di tornare ad occuparsi di casa nostra e far sì che i principali quotidiani e le principali televisioni non solo coprano l’evento, ma lo coprano bene e con compotenza. Una utopia, forse. Ma da un festival che raduna 30.000 persone senza mettere in campo nomi particolarmente crowdpleasing, ormai è lecito aspettarsi anche i miracoli.
Detto questo, ci sono comunque dei lati su cui l’edizione 2012 non ha toccato l’eccellenza. L’anteprima con Mills e Sinatti è stata evidentemente un errore: Mills o non ha capito o non ha voluto capire il contesto in cui sarebbe andato a suonare (o forse ormai si è irrigidito artisticamente è più di tanto non riesce ad uscire dal suo solito seminato), Claudio Sinatti che seguiamo da tempo e da tempo apprezziamo si è presentato con dei visuals assolutamente non curati nell’interplay con la musica millsiana (hanno mai provato insieme, i due?) e, soprattutto, brutti. Inspiegabilmente brutti. Per fortuna che Mills si è poi riscattato il giorno dopo allo Chalet quando, nella sua “confort zone” ovvero in un club dove gli si chiede di suonare techno, ha tirato fuori uno dei migliori set che gli abbiamo sentito fare da anni a questa parte – nulla di nuovo, sia chiaro, ma “quel” solito era veramente svolto divinamente, con potenza avvolgente e perfetto timing.
Altra critica da fare a Club To Club è relativa agli impianti, anche se bisogna dire che sono stati fatti dei grandi passi in avanti: nel Padiglione del Lingotto quest’anno si sentiva meglio dell’anno scorso (l’anno scorso si sentiva male, quest’anno quasi benino – ma si può fare di più), e la serata Hyperdub all’Hiroshima almeno nella sala principale del club ha avuto il suo sano rinforzo di sub. Però al Concordia si poteva e doveva fare di meglio. Sappiamo che è budget in più. Ma è budget importante, ora. Dato che ormai Club To Club si è costruito una reputazione adamantina come consistenza artistica, come giusto che sia, adesso può cominciare a pensare di costruirsi una reputazione a livelli europei anche nella qualità del suono nelle varie location (come giustamente notava Mattia, il Lapsus per dire era effettivamente inadeguato).
Sì, vogliamo tanto. Pretendiamo tanto, da Club To Club. Perché, a nostro modo di vedere, in questo momento è il festival di musiche “elettroniche&dintorni” più importante in Italia, almeno fino a quando non nasceranno e se nasceranno altri attori: lo è per il perfetto rapporto tra numeri e qualità, perché negli altri casi qua da noi uno dei due fattori continua ad essere molto più consistente rispetto all’altro. Una lezione iniziata da Dissonanze, e che il festival torinese sta tentando di portare avanti. Onore al merito. Ma più grande è l’onore, più crescono gli oneri. A Torino, soprattutto come idee e gusto, hanno le spalle larghe: siamo fiduciosi che ci siano ancora bei margini di crescita. Soprattutto se a dare una mano ci saranno le istituzioni cittadine e regionali, ultimamente un po’ troppo sensibili alle ragioni del jazz (con un jazz festival che nella città sabauda si è ritrovato dal nulla ad avere contributi enormi, troppo grandi, “drogando” il mercato in tempi in cui le risorse andrebbero distribuite con oculatezza).
Damir Ivic