Qualche notte fa, ascoltando BBC Radio 1 nella speranza di non addormentarmi prima che Mary Anne Hobbs passasse “ …And The World Laughs With You” di Flying Lotus in collaborazione con Thom Yorke, la mia attenzione viene catturata da quello che sembra essere un pezzo inedito – alle mie orecchie, perlomeno – di Burial. Durante la coda scopro che in realtà si tratta di un estratto dal nuovo album di Breakage, nome che ricordavo solo per un remix – non memorabile tra l’altro, considerata anche la grandezza dell’originale – di “Paradise Circus” dei Massive Attack. Scopro inoltre che il disco si chiama Foundation, che è in uscita il 22 Marzo su Digital Soundboy e che contiene una lista di ospiti davvero interessante: Roots Manuva, lo stesso Burial (nella traccia appena trasmessa in anteprima) e Kemo, tra gli altri. Decido che è abbastanza per approfondire.
Foundation supera sin dall’inizio qualsiasi mia aspettativa. L’incipit è di quelli che non si dimenticano: “Open Up” e “Hard”, ma anche il brevissimo interlude “Digiboy Radio” – che tanto mi ha ricordato la gloriosa “Brown Paper Bag” di Roni Size – chiariscono immediatamente quali siano le coordinate sonore su cui il nostro intende muoversi, principalmente dub(step), grime e d’n’b. Quello che sorprende è come il disco non si riveli affatto ostico, a dispetto della sua struttura non esattamente agile (un’ora di durata circa) e della suo andamento assai poco lineare: l’eterogeneità e, più semplicemente, la qualità generale del lavoro di James Boyle difficilmente vi indurranno a cercare il tasto skip per passare alla traccia successiva. E’ un’opera indubbiamente di genere, “monolitica” ma decisamente varia e soprattutto mai noiosa: si passa infatti con disinvoltura dall’incedere minaccioso di “Temper”, un 4/4 con tribalismi degni del migliore Shackleton e l’inquietante sussurrare di Kemo in sottofondo, a passaggi ai confini dell’ r’n’b quali “Justified” o “Speechless” (che non sfigurerebbero in un disco dei Kosheen o nelle K&D Sessions, per capirci), per poi chiudere il cerchio e tornare a suoni di matrice Burialesca con la meravigliosa “Vial”, senza per questo sacrificare qualcosa in termini di compattezza o continuità del discorso intrapreso.
“Breakage is a man with an ear for deep, sub-sonic frequencies. He goes in low.” (Roots Manuva)
Ben più complicato è affrontare il discorso The Knife e il loro doppio Tomorrow, In A Year, licenziato per l’Europa da Rabid solo qualche settimana fa. La storia dietro il concept pare essere grossomodo questa: la compagnia teatrale danese Hotel Pro Forma contatta Olof e Karin – impegnati in quel momento nei loro progetti solisti Oni Ayhun e Fever Ray, rispettivamente – chiedendo loro di musicare e “librettare” una electro-opera ispirata a Charles Darwin. Due sono gli elementi problematici di Tomorrow, In A Year.
Primo: non v’è dubbio che, almeno formalmente, ci si trovi davanti ad un nuovo album a nome The Knife, ma è altrettanto chiaro che l’approccio al disco, conoscendone la genesi, non può essere quello che si avrebbe nell’ascoltare una qualsiasi altra cosa prodotta dai fratelli svedesi. Secondo: Tomorrow, In A Year è un’opera pensata per essere messa in scena, e il solo ascolto ne rende dunque la fruizione inevitabilmente incompleta, castrata. E’ una limitazione fisica a cui non v’è rimedio, se non quello di andarsi a vedere l’opera a teatro o , nella peggiore delle ipotesi, procurarsi il dvd della rappresentazione (se mai verrà realizzato, chiaro). Proprio per queste ragioni Tomorrow, In A Year richiede grande dedizione: un ascolto casuale potrebbe anzi essere controproducente e irritante, convincendo anche il fan più incallito a lasciar perdere qualcosa che invece, se affrontato in maniera adeguata, può regalare grandi soddisfazioni. Il primo disco è un condensato di ambient, field-recordings (suoni prelevati in Amazzonia, luogo in cui Darwin affrontò parte della sua ricerca) e rumorismi vari che fungono da tappeto sonoro alla voce del mezzosoprano Kristina Wahlin; il secondo è invece più accessibile e contiene diversi episodi che potrebbero prefigurare l’evoluzione dei The Knife che verranno. “Colouring Of Pigeons” è uno dei pezzi più a fuoco in assoluto, “Seeds” è musicalmente molto affine alle produzioni di Olof/Oni Ayhun, mentre “Height Of Summer” sembra un outtake (di ottima qualità, va detto) di Silent Shout, tanta è la vicinanza stilistica con i The Knife più convenzionali.
E’ con colpevole ritardo che mi accorgo dei Wareika, trio di Amburgo che ha da poco rilasciato l’ottimo Formation sotto l’egida di Tartelet. Devo aver deciso di trascurarli dopo essermi imbattuto in una delle tracce presenti in questo stesso LP, “One Nation”, su cui del resto non ho cambiato parere riascoltandola a distanza di qualche tempo: soliti, inflazionatissimi fiati pseudo-balcanici, beat scarno, chitarra in levare a rendere il tutto un po’ più folkloristico, progressione inesistente… una gran noia, insomma. Incuriosito da un secondo pezzo, “Facing The Sun” – questo sì veramente notevole – decido di dare una seconda opportunità ai Wareika e al loro disco, scelta che si rivelerà azzeccata.
Formation si apre con “Men Village”, house organica e sorprendentemente “fisica” con reminiscenze Trentemølleriane (ma anche qualcosa di Cobblestone Jazz) e continua con “Ascending/Descending”, mid-tempo che ha la sola colpa di introdurre la coppia di tracce meno riuscita del disco, composta da “Barracuda” e dalla già menzionata “One Nation”. Una volta superati questi due ostacoli, l’album decolla: “Facing The Sun” è pura, sudatissima house, con una meravigliosa voce lasciata libera di svisare e coinvolgere l’ascoltatore nel crescendo che condurrà alla vera sorpresa di Formation, “Riders On The Storm”, cover (mai termine fu più riduttivo) dei Doors. Ci vuole una dose di coraggio non indifferente per cimentarsi in un’impresa del genere: ebbene, che ci crediate o no, la sfida è vinta, Jim Morrison & soci suonano benissimo anche in chiave jazz-house. Incredibile. Di ottima fattura anche la successiva “Burnin”, lasciando il compito di chiudere il disco in maniera piuttosto rilassata a “Belonging”.
Un disco buono suona sempre due volte, a quanto pare.