L’importante è avere le aspettative giuste. E’ troppo infatti chiedere a questo lp di essere “il nuovo album di Apparat”. Al tempo stesso, è ingeneroso liquidarlo come un furbo tentativo di aggiungere un po’ di numeri al fatturato suo o della label, spacciandolo per materiale senza interesse. D’altro canto è raro che le colonne sonore di un progetto qualsiasi – in questo caso, una piece teatrale – siano dischi realmente pronti ad essere ascoltati senza prepararsi prima ad essere un po’ delusi. Sono lavori che si acquistano per lo più per feticismo; e Apparat un po’ di feticismo lo merita, la sua capacità di “disegnare” colori ed armonizzazioni ha rivitalizzato in tempi non sospetti una musica elettronica (chiamiamola così per comodità) che stava finendo strangolata da se stessa e dal suo minimalismo in cui i loop parevano bastare. Fosse anche solo per questo, potremmo comprare i rumori di lui che prepara il caffé al mattino. Forse.
Forse, perché anche se non hanno più i prezzi assurdi di dieci anni fa gli album comunque costano, e oggi le spese vanno ponderate. Forse, perché comunque in questo “Krieg Und Frieden” potevano esserci più elementi di interesse, più canzoni compiute, meno spazi atmosferici dilatati e meramente “di passaggio”. Forse, perché il pericolo adesso è che Sascha cominci a cadere un po’ nella maniera – già con “The Devil’s Walk” è stato un po’ così – contando sulla sua abilità di creare in automatico panorami distesi, malinconici, nebbiosi. Magari proprio sfidato a comporre una colonna sonora per uno spettacolo teatrale poteva prendersi qualche rischio in più, tentare esperimenti nuovi: non l’ha fatto (e no, non ci bastano i fiati di “PV”, i Radiohead li avevano già usati così a tempi di “Kid A” e ogni tanto Sascha si appoggia troppo come ispirazione ai Radiohead).
Insomma, un giudizio a metà il nostro. Momenti di fascino ce ne sono svariati, anche alcune parti ambient sanno essere giocate piuttosto bene (“Tod” è notevole, ad esempio); ma ci sono anche momenti di noia, e soprattutto la sensazione che si poteva fare comunque qualcosa in più, uscendo dalla propria “confort zone”. E’ sempre Apparat, però: musicista vero in un panorama che premia fin troppo musicisti finti, bravi solo a manovrare software creando due-loop-due. Ma di questi mestieranti a breve faremo tutti quanti giustizia, concedeteci questa previsione, concedeteci questo auspicio.