Siamo tutti troppo abituati ad avere l’ascolto facile. Siamo tutti troppo abituati a chiamare sperimentazione ciò che è appena un filo diverso rispetto al canone. Siamo tutti troppo abituati a chiamare originalità ciò che è solo una microvariazione rispetto agli standard. Siamo tutti troppo abituati a fingerci esperti, solo perché sappiamo quali sono le più recenti uscite in vinile delle etichette più stilose (o più modaiole) per i dancefloor. Poi però ci sono dischi come “Exai”. Ed improvvisamente – se si ha un minimo di coscienza, di amore per l’arte, di volontà di superare i propri limiti – ci si rende conto di quanto sia importante, anzi, fondamentale avere qualcosa del genere nei propri ascolti.
Vi faranno del male, gli Autechre. Ve ne hanno tra l’altro sempre fatto, chi li conosce lo sa: la loro è una musica complessa, complicata, faticosa, addirittura cattiva per quanto è poco crowdpleasing. Chi li conosce bene, poi, potrebbe perdersi in mille considerazioni su quali siano gli album più importanti nella loro discografia ormai più che ventennale (“Tri Repetae”? “LP5”? “Quaristice”? O il primissimo “Incunabula”?): per tutti loro, diciamo che “Exai” è una sorta di somma e moltiplicatore di tutti i loro vezzi sonori e di modus operandi. Imponente e monumentale non solo nella durata, (doppio cd, 121 minuti, e infatti si intitola “Exai” che è una traslitteraizione dell’XI romano…questo è il loro undicesimo album, e la durata di 121 minuti deriva dal fatto che 11×11 fa 121), ma imponente e monumentale anche e soprattutto nelle intenzioni e, al solito, nel lavoro speficifatamente tecnico sui suoni (giusto qualche lavorìo in più nell’esplorare le frequenze basse non ci sarebbe stato male).
Poi però ci sono tutti gli altri: quelli che non sono fan autechriani malati all’ultimo stadio. E sono la stragrande maggioranza di voi che state leggendo, com’è giusto che sia. Magari li avete sentiti nominare (e avete percepito che “fa figo” dire di apprezzarli), magari sono un pianeta sconosciuto. Per tutti voi: lanciatevi nell’ascolto di questo album. Fa male. Vi farà molto male. Vi annoierete moltissimo. Vi darà fastidio. Ma al tempo stesso, scoprirete quanto in realtà noia e fastidio possano essere esperienze fondamentali per arricchire la pratica dell’ascolto musicale. Troppo abituati all’ascolto edonistico da dancefloor, alla musica come tool, oppure semplicemente alla ricerca di solo ciò che è familiare ai nostri ascolti e vicino ai nostri gusti più semplici ed immediati, una volta a contatto con queste due ore di musica faticosa, faticosissima se riuscirete ad arrivarne a capo – leggi, ascoltare dall’inizio alla fine – sentirete una sensazione di gioia e soddisfazione che nessun ascolto Visionquest o Minus o Cadenza vi darà mai. E ve lo diciamo, lo giuriamo, senza voler sminuire le label in questione. Non è una gara. Sono proprio esperienze intimamente diverse.
Sarà come aver terminato una maratona. Una maratona in cui a metà percorso sei stato male, hai odiato la corsa, la durezza dell’asfalto, la mancanza di fiato che ti taglia in due, l’acido lattico che ti sta corrodendo; ma quando arrivi a tagliare il traguardo, non esiste momento più bello. I due Autechre, Rob Brown e Sean Booth, sottopongono la musica elettronica di ieri, oggi e domani ad una decostruzione ferocissima. Rendono i suoni liquidi o al contrario troppo aspri e dissonanti, rendono le strutture ritmiche labirintiche e zoppe, cercano insomma di espandere di continuo i canoni a) della propria arte b) della musica elettronica tout court c) della capacità dell’ascoltatore di recepire stimoli estremi. In “Exai”, lo fanno più che in qualsiasi altro loro lavoro passato. Se anche non li conoscete o li conoscete pochissimo, quindi, vale in ogni caso iniziare da qui: tanto per faticare faticherete comunque, per odiarli li odiereste in ogni caso per la loro voglia di complicare le cose, a questo punto meglio iniziare subito dall’approdo più ostico.
Ne vale la pena. Così potete scoprire voi stessi quanto siete disposti a mettervi in gioco, nel vostro ruolo di ascoltatori, e quanto siete in grado di mettervi in discussione. La musica non deve essere solo rassicurante, solo divertente, solo euforizzante; la musica può e deve essere una esperienza profonda, complicata. Se siete esperti di house, techno, dubstep, hip hop, IDM, ambient diventa poi ancora più divertente vedere fino a che punto tutte queste categorie sonore possano essere trasfigurate ed inserite, tutte insieme, in un magma che pare a prima vista caotico e casuale, ma è invece in realtà studiato fino al singolo millimetro. Un’esperienza che vi farà crescere, basta che non vi arrendiate alla noia e al fastidio che sicuramente proverete a metà del guado.