E se suonare per primo mentre la sala si riempie fosse più complicato che suonare da ospite fra le quattro e le sei, di fronte a una sala già piena di gente venuta apposta per te, e scaldata a dovere? Se per arrivare passo dopo passo a un punto, alzando la tensione di una tacca per volta, fossero necessarie abilità, competenze e lampi di genio che in pieno peak time si possono anche tralasciare, o quantomeno mettere in secondo piano. Ce ne sarebbe per un bell’articolo di approfondimento, ma di una cosa siamo certi fin da ora: fossimo gestori di un locale, appalteremmo quella fascia oraria così delicata al canadese Eddie C.
Se due album fanno una prova, non c’è confronto: come il suo eccellente predecessore “Parts Unknown” (2011), al quale a conti fatti risulta solo leggermente inferiore, “Country City Country” pare costruito apposta. Comincia piano e senza fretta sale, sia in termini di puri bpm sia per come avvolge l’ascoltatore e lo porta altrove. Poggia su alcuni punti fermi – la leggerezza balearica del tocco, il funk come mentalità, le melodie, le linee di basso morbide, l’uso diffuso e sapiente dei campioni, l’evidente vasta conoscenza della materia – e da lì parte per un viaggio rilassato e profondo che fila via liscio nonostante i quasi ottanta minuti di durata (dei quali solo i sette di “It Goes Free” risultano evitabili).
L’intro con voce da sound system giamaicano su beat dolce di “To Each Their Own” dà via libera a una serie di trame hip hop notturne come “Stoney Pharmacy” e “Fool on the Hill”, quest’ultima molto jazzy con breve frase di piano, sax tagliato e sporcizia da vinile. Il pop virato easy listening di “Motsa” porta ai loop sincopati di “Drinkin And Thinkin”, mentre il groove disco dilatato di “Jam on Dallas Road” riporta alla mente il leggendario edit di “Superstition” firmato Todd Terje, e marca il primo vero spostamento dal bar alla pista.
Pista che da lì prende quota: il boogie con legnetti di “Erase”, il basso slappato e le cascatelle disco di “Black Meat Dance”, funk cosmico da maestri come quello di “Every Life Under the Invisible Hands” e “Eisbergen”, l’ipnosi dell’essenziale “Surprise Pass”, i toni house latini di “La Palette” fra poliritmi e piano elettrico, quelli disco-house di “(Be Aware) Nothing For Free”. Missione compiuta.