Quando, a Roma sabato 23 marzo, arrivo davanti all’ex Palaeur (oggi Palalottomatica) mi saltano all’occhio tutti i problemi, o comunque le insoddisfazioni. L’età media ben sotto i diciotto anni (che assist per i detrattori di Kalkbrenner), l’invadenza artificiale di certi personaggi mascherati da non si sa bene cosa, i mille bagarini che gracchiano “parterre, parterre” a tempo non perfetto con la musica assordante dei chioschi di bibite e panini (Sky & Sand e Aaron viaggiano a ripetizione, ovviamente). Sbuffo aria, poi mi dico: fatti und birretta, rilassati. Cinque euro per una Beck’s calda non so se sono troppi, di sicuro non sono pochi. Ritiro il biglietto e, accompagnato da mia sorella Nelly (grande appassionata di techno e fedele compagna di viaggio dai tempi in cui regnava ‘Music is the answer’) mi dirigo verso l’entrata, pronto a ragiungere il parterre. Per varcare la soglia dell’ultima porta ho dovuto mostrare il mio biglietto quattro volte, il che non lenisce minimamente la mia irritazione. Anzi. Che poi la sorpresa è non averlo perso, il biglietto. Insomma, situazione a dir poco insolita per noi veterani dell’underground, noi ben dentro agli ‘enta’ che ci siamo fatti Roma/Londra andata e ritorno in mezza giornata solo per sentirci un ora e mezza di live dei Cobblestone Jazz. Quality.
Ma c’è qualcosa di dolce in tutto questo marasama kalkbrenneriano, qualcosa di diverso. Sta di fatto che alla fine siamo dentro, comunque dopo aver trascorso una vita fra le file di bagno e bar dove, giuro, due cassieri e due barman si sono trovati a fronteggiare le richieste di circa duemila persone. Giusto, il bar: luogo dove l’unica bevanda alcolica disponibile, a parte la birra calda, è la vodka alla pesca. A questo punto sono costretto a domandarmi: sono negativo io o è la realtà che mi circonda ad essere scadente? Mia sorella mi strappa da terra e mi piazza sottocassa ed ecco che non solo dimentico di darmi una risposta ma perfino ballo, e quasi sudo, e non so come ma riesco a chiudere gli occhi per qualche minuto. Aria, penso, musica! Anche se quella di Fritz Zander è un po’ troppo bassa di volume (i suoni alti sono difficili da distinguere) e pure un pó monotona, anche se, devo ammetterlo, tecnicamente il ragazzo è irreprensibile. Cambi perfetti, atmosfera tipica da apertura senza vocals, filtri, fronzoli e inutili smaneggiamenti. E così, a suon di cambi cristallini e un po’ troppo prevedibili, a parte un lampo di nome “Erotic Discourse”, la perla di Paul Woolford per la quale la gente è letteralmente impazzita, un ora è passata. Volata via. Nel frattempo il palazzetto si è riempito e lo scarno telo nero finalmente lascia spazio al set up futuristico di Kalkbrenner formato da console intergalattica, raggi laser e super mega maxi schermo. Ora che l’astronave è atterrata, può partire. Scende il buio e la musica si spegne insieme a Zander.
Tocca a Paul, che per mezz’ora buona sputa fuori solo pezzi nuovi, inclusa la bella Das Gezabel. Poi parte Boxig Liese, un pezzo del penultimo album molto lento e scarico di bassi. Ma la trama è accattivante e si balla comunque, con le dita al cielo e piedi in aria. Niente parole sin qui. È techno, commerciale quanto volete e a tratti facilmente intuibile, ma pur sempre techno. Kalkbrenner sembra molto carico, stretto intorno alle sue macchine come una balia ubriaca, immerso nella t-shirt rossa del Bayern Monaco (più tardi metterà quella degli azzurri, la Nazionale, con tanto di fascia da capitano, suscitando un boato da parte della folla). Mollo il palco e giro la testa di centottanta gradi. Il colpo d’occhio è notevole, sorrisi a profusione. Mia sorella balla forte e una ragazza che sembra uscita dal concerto di Vasco balla forte piu di lei. Avrà diciotto anni, conosce ogni canzone e sprizza energia da tutti i pori. Insomma, è forte. Mentre la vedo saltare e abbracciarsi con gli amici realizzo pefettamente che quello di stasera non è uno spettacolo, un festival o uno show. No, è un concerto vero e proprio. Le vibrazioni sono quelle e tutte i fastidi di prima vengono cancellati dai sorrisi soddisfatti della gente. Sorrisi che si allargano a dismisura quando partono, quasi in serie, Square 1 (a mio parere il miglior pezzo di tutta la discografia di Mr. Calling), Altes Kamuffel, Kleines Bubu, Sky & Sand (purtroppo due volte) e infine Mad World, vera e propria gemma di bellezza e semplicità. Di gran lunga la migliore chiusura che potessi desiderare, un inno alla bellezza di ognuna di quelle diecimila giovani teste, e di tutte quelle fuori. Sei miliardi? Sette?
Applausi per PK allora, così definito da un amico: “il nuovo Papa”.