Avete già avuto modo di leggere quanto è strafigo il nuovo album di James Blake nelle recensioni di ogni angolo del globo, per cui toccherà a noi oggi recitare per un po’ la parte dell’avvocato del diavolo e raccontarvi “quello che gli altri non dicono”. A cominciare da un dato difficilmente contestabile: “Overgrown” non è – e non poteva essere – un disco storicamente importante quanto lo era stato nel 2011 il primo omonimo. Perché allora il debutto del fenomeno londinese era venuto fuori in un fermento generale che stava cambiando la rotta al dubstep con gradi diversi di sperimentazione e “James Blake” aveva rappresentato l’esempio più plateale di coraggio e iniziativa nel percorso post-dubstep, era riuscito a mettere d’accordo quasi tutti (compresi quelli che ancora si chiedevano cosa fosse questo dubstep) con un approccio convintamente artsy e spiazzante, una formula che scommetteva sul contatto con chi non aveva (ancora) sentito nulla del genere. “Overgrown”, invece, è “solo” il ritorno di James Blake, rivolto quindi a chi ha amato il personaggio e i suoni che da lui son nati e cresciuti negli ultimi due anni, fatto per offrire a chi ha sete di blakismo l’atteso passo avanti. È per questo che in questo disco manca il pezzo a effetto come fu allora la “Limit To Your Love”: perché l’obiettivo non è più unire differenti sensibilità di pubblico ma, in definitiva, dare conferme. Senza troppe sorprese.
Fatta questa premessa, va comunque detto che “Overgrown” è ancora una volta un grande album, ed è stupefacente quanto questo implacabile ventiquattrenne sia sempre in grado di centrare le prove importanti, anche quando tutto gioca a suo sfavore (dall’hype smodato che, suo malgrado, gli nuoce ogni volta di più alla lenta linea di declino segnata dagli EP del dopo-album). L’unico discriminante decisivo circa il valore effettivo di questa seconda prova era la presenza o meno di elementi di crescita del sound, e la crescita c’è stata. Eccome se c’è stata: l’approccio compositivo si è fatto più intenso, ha eliminato quei drappeggi capricciosi che facevano storcere il naso l’ultima volta e ha trovato il suo nord espressivo in un dub intimista dall’alta carica emozionale. Via quel minimalismo a tratti saccente del primo album e largo a quei bassi avvolgenti che agevolano l’introspezione, la figura cantautoriale di Blake ha oggi polso e coscienza di sé e la prima metà dell’album contiene alcuni dei pezzi migliori che lui abbia mai prodotto. In “Overgrown” persino le doti vocali sembrano enormemente migliorate in termini di suggestioni, “I Am Sold” è bravissima a ragionare in maniera semplice puntando esclusivamente su tempi rallentati e fascinosi spazi ritmici, “Life Round Here” è prova decisiva di una maturità che deve molto anche a un Thom Yorke e “Retrograde” è l’essenza di cosa può essere Blake quando è ispirato: essenziale e incalzante, disperato e bellissimo.
La seconda metà apre comunque a quelle storiche imperfezioni di fruizione della musica di Blake e “DLM” è l’esempio lampante di ciò che lui NON deve fare, ossia lasciarsi andare alla piena libertà del “canto+piano” che, senza una guida che detti il passo e un orizzonte che determini la direzione, sfocia spesso in una inconsistente autoreferenzialità. Come, d’altra parte, quel che va assolutamente evitato è cedere a forme troppo facili (come i 4/4 di “Voyeur”, efficaci ma – consentitecelo – alla portata di chiunque) o troppo strategiche (come la patinata collaborazione con RZA, ancora buona per la sua eccezionalità ma sinceramente forzata nelle dinamiche di un suo album), entrambe pericolose per il rischio che ne venga minata la sincera qualità compositiva finora sfoggiata. Questo per dire che “Overgrown” è album non perfetto ma perfettibile, che nel sound di James Blake c’è ancora largo spazio per affinare ancora certe giovani ingenuità e che tuttavia parliamo comunque di un disco che figurerà tra i migliori dell’annata in corso. Nel 2011 il segreto era stato sposare le amatissime intuizioni di Burial e combinare i fermenti del momento con la propria vena soulful, oggi invece la mossa vincente è stata identificare le attese sul suo conto e agire in continuità verso quella che, dagli The xx a SBTRKT, è diventata una delle nuove passioni del suo pubblico. Adesso Blake è il Tricky del sentire elettronico comune, detentore di una formula vincente, lanciato in un proprio percorso di crescita e additato da tutti (a ragione) come il più emozionale della sua generazione. Ulteriore peso e responsabilità che si aggiunge sulle sue spalle, eppure non ne sembra per nulla intimorito.