Perdonate la foga e lo scarso ordine mentale con cui probabilmente scriverò queste righe, ma quanto è successo qualche notte fa al Dude merita (e meriterà sempre) un’instantanea e doverosa menzione sulle nostre pagine.
Erano settimane che la data del 3 Maggio era cerchiata in rosso sul mio calendario. Nella stessa sera la mia Milano proponeva due nomi da far venire il groppo in gola: Frankie Knuckles e Ron Trent. Il Padrino della house e dominatore della scena americana sin dalla fine dei ‘70 contro una delle leggende della windy city aka Chicago, con oltre 20 anni di carriera alle spalle. Due che generalmente in Italia, soprattutto il secondo, non capita molto spesso di vedere all’opera, anzi.
Problema: purtroppo suonavano in due locali diversi, con situazione e clientela diametralmente opposte fra loro. Con tutto il rispetto, siccome sono uno che va a ballare ma anche e soprattutto ad ascoltare (di certo non vado per cercarmi la donna), non ci penso proprio di sentirmi giudicare dal door selector di turno per il modo in cui sono vestito o per il fatto che non ho 12 modelle al seguito, per cui la scelta è scontata. Vado al Dude.
Il Dude, che da due anni buoni (da quando ha aperto in sostanza) è quasi settimanalmente la mia isola felice meneghina quando non sono in giro per l’Europa. Poche chiacchiere, molta sostanza e una programmazione che sempre più spesso mi fa venire voglia di non partire.
Arrivo al locale che sono già le 2 passate. Come spesso accade (purtroppo) la risposta del pubblico a un nome del genere è quantomeno sconcertante. Ok il locale di sicuro non è vuoto, ma con un nome del genere a 15 euro dovrebbe esserci la gente arrampicata sui muri col block notes in mano pronta a prendere nota, come se fosse una lezione. Se poi penso che c’è chi spende 30 e passa euro per stare in mezzo alla calca a sentire sempre gli stessi nomi, giuro vorrei darmi una cacciavitata nelle tempie, ma questo è un altro discorso.
Entro e all’orizzonte scorgo subito Ron Trent, che sta ultimando i preparativi per iniziare il suo set. Noto subito che, come la maggior parte dei suoi colleghi statunitensi della vecchia scuola, suona con un Rane modulare, mixer particolarmente adatto per “giocare” con i suoni grazie alla presenza delle manopole invece che dei fader. Inutile dire che questa scelta regalerà emozioni incommensurabili a chi vi sta scrivendo.
Ora, questo è il momento in cui dovrei raccontarvi il suo set, ma nella mia mente si accavallano così tante sensazioni da rendermi persino difficile trascrivere ciò che Ron ci ha regalato in quelle 3 ore. Per questo mi incazzo al pensiero che ci sarebbe dovuta essere più gente. Perché chiunque abbia una sincera passione per la musica elettronica dovrebbe avere la possibilità di vivere ciò che noi fortunati abbiamo vissuto. E non una volta ogni tanto, ma ogni settimana.
Non rimanevo così coinvolto emotivamente da un dj set dai tempi del party Body&Soul al Moxa di Mantova (altro locale stratosferico su cui bisognerebbe spendere pagine e pagine di lodi).
Ora, non fraintendetemi, non sono alle prime armi. Capisco che leggendo queste righe io possa sembrare un pò come la ragazzina che va al suo primo concerto e rimane a bocca aperta, ma in un certo senso (nonostante siano anni che faccio clubbing) posso dire di aver sentito qualcosa di nuovo, sebbene in realtà non lo sia affatto. Perché quando nell’arco di tre ore la conta dei dischi usciti nel XXI secolo non riesce nemmeno a pareggiare le dita di una mano, è difficile parlare di novità. La verità è che ci sono sempre meno artisti, soprattutto gli americani, volenterosi di esportare quella che è stata la musica degli anni migliori della loro carriera, forse per paura di non coinvolgere a dovere le “esigenti” platee europee. In particolare, molti degli artisti legati alla musica house, hanno snaturato il loro genere per dare spazio a musica più attuale e commerciale, col risultato di deludere i loro fedeli discepoli e di crearsi un seguito volubile e facilmente influenzabile.
Ron Trent non si è minimamente posto il problema. Ha fatto la sua musica e l’ha fatto come se fosse il 1997 e invece che al Dude fossimo al Vinyl Club di NYC. Non vi piace? Quella è la porta. E così deve essere quando ti aspetti di trovare di fronte qualcuno che sappia chi sei e cosa hai sempre fatto. Per questo parlo di qualcosa di “nuovo”, perché difficilmente in Italia assisterete a qualcosa di così radicalmente differente da ciò che è la musica ascoltata oggi. Certo, ogni dj ha la sua dose di classiconi in borsa e alla fine la musica è ciclica, ma qua parliamo di 3 ore consecutive fra tracce deep, soulful, tribal e techno vecchie di due decadi, mixate con un Rane da parte di una persona con 30 anni di esperienza in materia.
Per quanto una persona possa essere musicalmente acculturata e competente, è difficile non emozionarsi di fronte a un certo tipo di set che normalmente in Italia si ascolta di rado, ad eccezione di qualche vecchio mixato su Soundcloud, e che sicuramente non si sente da anni nei locali milanesi.
Ho provato sulla mia pelle ciò che una generazione di americani ha vissuto tutte le settimane per 20 fantastici anni, e se questo è potuto accadere un gigantesco grazie va ai ragazzi del Dude e a Ron Trent per aver regalato a Milano una notte che difficilmente passerà sotto silenzio.