A pochi giorni dall’uscita di After Dark, la sua compilation per Late Night Tales, abbiamo incrociato un’autentica enciclopedia della musica dance. Bill Brewster da Grimsby, Regno Unito: dj, scrittore, giornalista e collezionista di vinili da quasi mezzo secolo. Soprattutto quest’ultimo aspetto lo ha condizionato al punto da fargli dire che tutto ciò che è avvenuto nella sua carriera musicale parte proprio da questa sua ossessione. Anni fa mi capitò fra le mani, ammetto quasi per caso e su consiglio di mio fratello, un libro chiamato “Last Night A DJ Saved My Life” di cui Bill era uno dei due autori. Il testo era una vera e propria Bibbia del DJing, con interviste ed aneddoti su quasi 100 anni di storia, che praticamente nessuno prima di allora era stato in grado di mettere insieme. E’ stata come una rivelazione e mi ha aiutato a comprendere meglio le radici di ciò che ancora oggi vivo direttamente giorno dopo giorno, trattava nomi e situazioni che non avevo mai nemmeno sentito nominare eppure in alcuni aspetti le sentivo così dannatamente vicine a me. Visto che non tutti i giorni capita di fare due chiacchiere con una persona in possesso di così tante informazioni e che abbia vissuto l’evoluzione della musica anche sulla sua stessa pelle, ne ho approfittato per trattare alcuni dei temi fondamentali su cui il popolo della rete sta continuando a dibattere da tempo: come è cambiato il modo di concepire la musica negli anni e allo stesso il ruolo del dj, dei promoter e dei locali. Il buon Bill, per nulla intimorito da tante domande, non si è tirato indietro nemmeno quando abbiamo toccato argomenti delicati come l’omosessualità e l’uso delle droghe abbinato alla comunità musicale. Oltre a consigliarvi assolutamente di comprare il suo libro, non posso far altro che dedicare a tutti voi questa bellissima intervista come fosse un regalo di Natale anticipato, qualcosa che chiunque ami profondamente il club e la musica elettronica come il sottoscritto dovrebbe leggere il più spesso possibile. Magari solo come promemoria, per non dimenticarsi perché ci piace così tanto questo mondo!
Se non ti dispiace, vista la tua grande esperienza, vorremmo “sfruttarti” per fare una bella chiacchierata soffermandoci su vari aspetti del mondo musicale e di come sono cambiati nel corso degli anni. Sei pronto?
Ho già messo su il cappello da aviatore e gli occhialoni per prepararmi al viaggio!
Prima di tutto, mi è piaciuta molto la tua compilation “After Dark”, uscita su Late Night Tales. Come sei entrato in contatto con loro?
Circa quattro mesi fa ho eseguito un dj set per Boiler Room insieme ai Friendly Fires proprio per Late Night Tales e alla fine ho suonato ben più dell’ora stabilita in quanto uno di loro stava male. I ragazzi dell’etichetta sono rimasti parecchio soddisfatti di ciò che ho suonato e hanno ipotizzato che lo stile musicale che avevo proposto potesse adattarsi a una serie di compilations. Perciò sono andato via e sono tornato con un pò di tracce che avevo la convinzione funzionassero bene insieme.
Hai qualche preferito in questa selezione? E se potessi scegliere un luogo dove ascoltare questa raccolta, quale sarebbe?
Mmm, è davvero difficile scegliere i miei preferiti all’interno del mixato, ma se proprio dovessi parteggiare per qualcuno direi che sarebbe il pezzo di Marti Caine che da il via all’album, principalmente perché è un’artista che molto difficilmente si trova su un mix del genere. Lei era una famosa commediante di Sheffield, che ha anche cantato per un pò ma si trattava della tipica intrattenitrice per famiglie degli anni ’70 piuttosto che una credibile stella del soul o diva della disco music. Non c’è molto altro nei suoi album che sarebbe proponibile nell’ambiente del club attuale.
Questo ti sembrerà banale, forse in realtà un pò lo è, ma se oggi Bill Brewster dovesse presentare se stesso ai nostri lettori come si definirebbe? DJ? Clubber? Scrittore? Collezionista? Qualcuno di questi aspetti negli anni ha prevalso rispetto agli altri o hai sempre cercato di bilanciarli?
Sono prima di ogni altra cosa un collezionista di vinili. Tutto quello che sono finito a fare nell’industria musicale è fluito dal fatto che colleziono dischi. Ho cominciato a comprare 45 giri quando avevo dieci anni, molto tempo prima di essere mai entrato in un club o aver iniziato a suonare. Ho cominciato ad esibirmi alle feste perché avevo un sacco di dischi, non perché fossi necessariamente chissà quanto bravo a fare il dj o avessi particolari attitudini. Allo stesso modo ho cominciato a scrivere di musica perché ero appassionato di ciò che ascoltavo e gradivo, ma tutto è nato dal leggere riviste e copertine dei dischi. Sono stato molto fortunato nel vivere un’esistenza immerso nella musica per così tanto tempo.
Come è riuscito un giovanotto di Grimsby, diciamo non proprio la mecca del clubbing, a sentir nascere in se la passione per la musica? Quali sono stati i fattori chiave nella tua crescita musicale?
Bè, Grimsby non sarà il centro dell’Universo ma nei primi anni ’70 poteva vantare una notevole scena musicale grazie al fenomeno Northern Soul ed ai party che venivano organizzati nella vicina cittadina di Cleethorpes (sia ai Winter Gardens che al The Pier). Da un certo punto di vista, credo che la ragione per cui oggi ho una visione così ampia della musica sia anche dovuta al fatto di essere cresciuto un pò al di fuori, perciò ero costretto a comprare qualsiasi cosa avessi a disposizione, senza badare a quale genere fosse. Non abbiamo mai avuto un negozio di dischi durante tutta la mia crescita, perciò mi capitava di andare nei negozi dell’usato a cercare vecchi 45 giri ed LP. Dopo di che, quando avevo 16 anni, ho scoperto lo show notturno di John Peel su BBC Radio 1 e ciò ha avuto un notevole impatto su di me, perché era come una finestra aperta sul mondo della musica. Ed è importante ricordare che nonostante John Peel fosse associato principalmente al punk, in realtà suonava una grande varietà di musica. A partire dai dischi swing and jump degli anni ‘50 fino alla più stramba musica elettronica, alla proto-industrial o ai pezzi oddball come quelli di Ivor Cutler (un poeta scozzese ebreo che recitava strofe con in sottofondo un armonium).
Ti sei fin da subito innamorato della musica elettronica o è stato un avvicinamento graduale?
Inizialmente è stato graduale. Il primo disco di musica elettronica che ho comprato è stato “Autobahn” dei Kraftwerk quando era nelle classifiche pop nel 1975. Il “Big Bang” è stato nel 1978 quando “Being Boiled” degli Human League e “Warm Leatherette” dei The Normal furono entrambe rilasciate. Andai a sentire gli Human League al Marquee (nightclub di Londra, ndr) e rimasi shockato da tutto ciò. Molto futuristico. Da lì in poi iniziai a cercare molta più roba elettronica e poi ci fu un’inondazione a partire dagli anni ‘80 con il fenomeno New Romantic nel Regno Unito. Detto questo, allo stesso tempo stavo scoprendo la black music, band come i Cameo, gli Spunk, e poi George Benson e Curtis Mayfield. Perciò vivevo due odissee parallele fra la musica elettronica e il black funk, che si incontrarono nel mezzo quando l’electro fece la sua comparsa.
Una volta approdato a Londra, come è cambiato il tuo modo di vedere le cose? Quali sono stati i locali in cui hai vissuto i momenti migliori? E le persone com’erano all’epoca? Credi ci fosse maggior voglia di divertirsi senza fronzoli rispetto ad oggi?
Quando mi sono trasferito per la prima volta a Londra nel 1977, raramente sono stato nei club. Andavo sempre e solo ai concerti, qualsiasi cosa dai Sex Pistols ai Clash, dagli Specials ai B-52, ai The Cramps, la lista sarebbe infinita… Ho cominciato seriamente a fare clubbing alla fine degli anni ’80 quando avevo vissuto nel nord dell’Inghilterra per un periodo, perciò andavo al Warehouse di Leeds e al Garage di Nottingham. Quelli erano due ottimi club secondo me, perché ci suonavano un’enorme varietà di musica. Al Garage, c’era un ragazzo che si chiamava Martin Nesbitt che suonava musica psichedelica (garage punk, Hoodoo Gurus, ecc..) nella cantina e poi c’era questa piccola stanzetta di sopra dove Graeme Park suonava il primo hip hop, l’electro e cose stile Jonzun Crew. Al Warehouse invece, mischiavano di tutto in maniera ottima. Quindi ti capitava di sentire i D-Train accanto ai Clash o gli SOS Band dopo i Soft Cell. Era una grande combinazione ed era anche la prima volta in cui avevo sentito qualcuno mixare. Tornai a Londra nel 1986 ed iniziai ad andare ai party nei magazzini che organizzavano da quelle parti, dove anche lì la musica veniva mixata, in particolare la black music, e le droghe erano le canne e la Red Stripe (birra tuttora molto in voga nei party inglesi, ndr). Era un grande periodo a Londra, perciò quando la prima house music è arrivata in città non me ne poteva fregare di meno. I party dove andavo erano così fighi che non mi interessava altro (e a posteriori me ne pento). Dopo di che una mia ex-fidanzata mi portò a questo gay club chiamato Troll e scoprii l’Ecstasy…
Sei poi diventato parte della scena gay londinese. Perché ti attraeva così tanto da passare alcuni anni a frequentarla? Che cosa la differenziava da un punto di vista sia musicale che sociologico dalle altre situazioni?
Non fu voluto, ma fu un fortunato incidente, davvero. Oltretutto, avevo diversi amici omosessuali fin da quando avevo 16 anni. Il mio primo incontro con la cultura gay era stato nel 1979 quando un mio collega mi aveva portato a vedere Bent, uno spettacolo che parlava del trattamento nei confronti della comunità omosessuale durante il Nazismo. Nel cast c’erano Ian McKellen e Tom Bell. Era stato il suo modo per fare outing con me. Fino a quel momento non avevo nessuna conoscenza della cultura gay, nonostante due dei miei migliori amici al College lo fossero. Da quel momento mi sembrava di uscire soltanto con ragazze che avevano degli amici gay (odio usare termini come frocio o checca, lo trovo così misogino) ed una di loro mi portò, come ho già detto, al Troll nell’estate del 1989. Da lì in poi non sono più andato in un locale “normale” per almeno tre anni, salvo qualche uscita occasionale al Ministry of Sound quando aveva appena aperto. Ero completamente immerso in quella situazione. Andavo al Troll ogni settimana. Poi quando aprì il Trade cominciai ad andare anche lì. Poi c’erano anche altre feste come FF e Attitude, a cui andavo altrettanto regolarmente. Quando nel 1994 mi sono trasferito a New York, mi sono reso conto che non è possibile far parte della scena musicale di quella città senza fare amicizia con la comunità gay. Mi verrebbe da dire che il 70% dell’industria musicale dell’epoca era omosessuale quando vivevo a NY. E lo adoravo. Non so per quale motivo, ma mi sento a mio agio in mezzo a quel tipo di cultura. Non si tratta di una motivazione sociologica, mi piaceva semplicemente andare in giro con gli effemminati!
Come hai già detto, nel 1994 arrivi a New York: forse un pò troppo tardi per vivere gli anni di Dave Mancuso e Larry Levan ma comunque non penso ci si annoiasse da quelle parti, vero? Come si presentava la scena statunitense dopo anni così esaltanti? Chi sono stati i dj che hanno maggiormente influito su di te durante questo viaggio? Spesso citi il leggendario Danny Tenaglia e Junior Vasquez, resident dj del Sound Factory.
Incontrai Frank Broughton a NY, precisamente una settimana dopo che mi ero trasferito e diventammo istantaneamente migliori amici. Giravamo con un gruppetto che includeva tra gli altri Adam Goldstone (aka Superstar Of Rock), che lavorava al Wave, e Bruce Tantum, che ora gestisce il Time Out. Andavamo al Sound Factory tutte le settimane fino a che non ha chiuso nel 1995. Eravamo grandi discepoli di Junior Vasquez e siamo stati abbastanza fortunati da vederlo all’opera regolarmente su quel fantastico impianto in una stupenda sala da ballo. Tutto ciò allo stesso tempo accadeva perché eravamo amici di Rod Di Stefano, che gestiva Tribal America, e tramite lui anche di Danny Tenaglia, che incideva i dischi da lui. A quel tempo, Danny non aveva una residency fissa ma pregava per averla, perciò ad ogni party in cui suonava a Manhattan ci saremmo stati noi a fargli da cheerleaders. Perciò posso dire di essere stato piuttosto fortunato nel poter vedere regolarmente all’opera due dei dj migliori al mondo e di stare fianco a fianco in consolle con Danny, che è mi è stato molto d’aiuto ed è stato una grande ispirazione. Non solo per i suoi dj set, ma anche e soprattutto per la dedizione e il duro lavoro che metteva per rendere il tutto speciale, per tutti gli edit che faceva e per quando fosse implacabile nel cercare in negozio i dischi più particolari ed unici da suonare. Mi fece davvero una grande impressione sotto questo aspetto.
Quali erano le principali differenze tra UK e USA nel modo di concepire la musica ed organizzare feste?
Non ce n’era davvero nessuna. Un gran party è grande dappertutto. Tutto quello che ti serve è una bella folla, uno spazio semplice, un impianto quantomeno decente e un bravo dj.
Secondo te perchè la scena americana oggi vive principalmente di EDM e mode passeggere e sembra aver perso gran parte della matrice underground che scene come Londra e Berlino sono riuscite (almeno in parte) a preservare?
Credo non sia totalmente giusto caratterizzare tutti gli Stati Uniti sotto la voce EDM. Ci sono un sacco di cose interessanti che accadano là ma molte delle quali sono messe nell’ombra dall’imponenza che l’EDM ha raggiunto da quelle parti. Oltretutto, sebbene non me ne importi molto della musica che viene suonata in quegli eventi giganteschi, credo che sia esaltante pensare a tutti gli artisti interessanti che usciranno fuori da questa “esplosione” tra cinque o dieci anni, quando tutti questi tredicenni che seguono la musica passeranno magari da fan accaniti a produttori.
A un certo punto della tua esperienza a NY ha deciso, insieme a Frank Broughton, di scrivere “Last night a dj saved my life”, che a tutt’oggi rimane forse la miglior raccolta di testimonianze sulla storia del djing in circolazione. Quando l’ho letto alcuni anni fa mi sono reso conto di quante cose non sapessi, è incredibile la quantità di informazioni che avete reperito. Ti è capitato durante la raccolta di trovare persone che ti sono particolarmente rimaste nel cuore? O magari anche qualcuno che non aveva una gran voglia di raccontare la propria storia…
Grazie. Dopo due settimane di incontri avevamo deciso di scrivere un libro insieme a proposito della cultura musicale dance a NY, semplicemente perché aveva un passato ricco di avvenimenti e storie interessanti. Una volta che abbiamo cominciato a lavorarci, tante altre storie sono venute fuori. Perciò abbiamo continuato a cercare ed abbiamo intervistato tutte queste persone stupende. E tutti sono stati incredibilmente utili alla nostra ricerca, dandoci suggerimenti sulle persone a cui chiedere ulteriori informazioni e dove trovarle. Molti dei protagonisti del libro sono diventati buoni amici con cui parlo regolarmente ancora oggi. Scrivere il libro è stata un’esperienza strepitosa ed è stato un grande privilegio per noi essere i primi ad avere l’idea di raccontare tutte queste storie incredibili su dj di cui molta gente si era dimenticata.
Una tematica fondamentale da trattare è come il ruolo del dj abbia assunto un ruolo dominante nel corso degli anni. Credo che nessuno sia più adatto di te per rispondere a questo quesito: una volta le persone tendevano ad affezionarsi maggiormente al club diventandone col tempo “regulars”. Col passare del tempo l’attenzione del pubblico si è maggiormente incentrata sul nome di chi suona rispetto alle sensazioni legate al club in cui ciò avviene. Secondo te perché questo aspetto è variato così diametralmente?
E’ accaduto perché la club scene è diventata completamente schiava dei promoters, e credo che loro siano maggiormente influenzati dal marketing rispetto alla media dei dj. E’ una vergogna che non ci siano più artisti che suonano solo in un club e per l’intera notte, come accadeva prima. Credo che in questo modo sia più facile anche avere un legame maggiore fra il dj e la pista.
In una tua intervista ti ho sentito dire che le persone che hanno scritto la storia del djing difficilmente hanno fatto i soldi ed è anche per omaggiarli che tu e Frank avete scritto il libro. Perché oggi sembra quasi un’utopia credere che ci sia stato qualcuno che ha messo la passione prima di ogni altra cosa?
La grande differenza fra quelli che sono i pionieri ed chi c’è oggi è che fare il dj è diventata una carriera potenzialmente molto lucrativa da perseguire. Credo che questo aspetto alteri l’attitudine di molti dei ragazzini che vogliono diventare dj paragonati a, per dirne uno, Francis Grasso nel 1969. Il dj nei primi anni ’70, sebbene fosse adorato dalla piccola cricca che frequentava il suo locale, veniva pagato davvero poco e lo faceva principalmente per la passione per la musica. Fino all’esplosione dell’acid house nel 1988, praticamente tutti i dj venivano pagati una miseria da qualunque parte, perciò lo facevi solo perché amavi farlo. Oggi non è più la stessa cosa, ma ci sono ancora un sacco di persone che suonano musica che amano in maniera genuina. Essere pagati per loro è solo un bonus.
Oggi però ci troviamo di fronte a dj-rockstars che ricevono cifre esorbitanti e riempiono gli stadi di tutto il mondo. Nel corso degli anni il ruolo delle etichette discografiche ha sicuramente influenzato anche il clubbing. Basta pensare a come nomi come Sven Vath, Richie Hawtin, Luciano ed altri hanno creato le loro agenzie di booking in grado di dettare legge su gran parte del mercato mondiale. Non credi che questo tipo di cambiamento abbia in parte ucciso l’anima della musica in cambio del business? Qual è secondo te il motivo di questo radicale cambiamento nel modo di concepire il dj?
La musica elettronica è diventata enormemente popolare nel tipo di cultura che ci circonda oggi, questi significa che ha bisogno di “eroi” che la promuovano. Personalmente, posso dire che tutto questo ha poco a che fare con me e credo anche che abbia poco a che fare con la cultura che ha prodotto questo fenomeno. La valenza del dj è quella di creare un’interazione fra la pista e chi mette i dischi. Senza quell’aspetto non puoi dire di star facendo il dj, stai semplicemente suonando i dischi di qualcun altro.
Qual è secondo te il modo migliore per uscire da questa situazione di stallo?
Ignorarla e continuare a fare le proprie cose come se nulla fosse.
So che spesso risulta essere un argomento tabù, ma avendo tu una visione molto ampia della club culture mi piacerebbe sapere anche la tua opinione sulle droghe. Secondo te perchè la cultura dello sballo ha avuto un ruolo così centrale durante gli ultimi 50 anni di musica (anche non elettronica)?
La mia opinione sulle droghe non è basata su morali o leggi, ma su fatti. Nel 2001 in Regno Unito ci sono state 8.700 morti collegate all’alcool. Lo stesso anno ce ne sono state circa 100.000 legate al fumo. Di rimando, ne troviamo 112 attribuibili al consumo di cocaina e 62 di anfetamine (inclusa l’ecstasy). Ci sono state più morti collegabili all’aspirina e al paracetamolo (218) di quante ne mettano insieme ecstasy, cocaina e anfetamine. Quindi per prima cosa, credo che dovremmo guardare il tutto sotto questo aspetto. La musica ha sempre avuto delle droghe ad essa associate, a partire dagli anni ’20 e prima ancora. Siano la cocaina ed il jazz, la cannabis e il raggae o l’ecstasy e la musica house. I giovani vogliono sperimentare. Pensi di essere invincibile quando sei giovane e far festa prendendo droghe è parto di tutto ciò. Alcune droghe fanno suonare meglio la musica, credo. Mi sembra fuori di testa che un membro del Parlamento che fuma 60 sigarette al giorno e che si incazza regolarmente è visto come un membro rispettabile della società, mentre invece un ragazzino di 18 anni che si fa una pastiglia al mese è visto come un fuorilegge. Credo sia un concetto sbagliato.
Ho letto che sei un grande collezionista di vinili. So che te lo avranno già chiesto centinaia di volte, ma quali sono i pezzi della tua raccolta a cui ti senti maggiormente legato sentimentalmente?
E’ come chiedermi di scegliere il mio figlio preferito. Molti dei dischi che amo maggiormente non sono rari, sono speciali per il motivo o il momento in cui li ho acquistati. Provo ancora un sacco di affetto nei confronti di “Rock On” di David Essex perché è stato uno dei primi 45 giri che ho comprato ed ho ancora la mia copia originale. “Teenage Kicks” degli Undertones nella sua copertina originale è un altro che ricordo con piacere. Il mio disco house favorito invece è “Paper Moon” dei 51 Days. Ne ho due copie, una della sua etichetta originale ed un altro rilasciato da Bold negli Stati Uniti. A parte quelli, è difficile dirlo. Potrei probabilmente nominarne altri 200 senza nemmeno sforzarmi troppo ad andare a fondo.
So che da anni ormai sei passato ai cd’s, quindi credo che tu non sia un “integralista del vinile” come molti tuoi colleghi. Come ti poni in questa polemica tra purismo e tecnologia? Qual è attualmente il tuo setup quando suoni?
Uso i cd quando suono ora, ma ho Traktor a casa e ci sto giocherellando (e presto probabilmente lo utilizzerò anche qualche volta in giro). Ho utilizzato cd e basta per parecchio tempo. Continuo però a collezionare vinili. Amo ancora il vinile. Trovo semplicemente bizzarro che ci siano persone, a prescindere, contro qualsiasi cosa che non sia il vinile. La tecnologia si è evoluta e può offrire tante di quelle possibilità. La musica dance è guidata dalla tecnologia, perciò perché i dj non dovrebbero adeguarsi alle sue mutazioni? A nessuno in pista frega se suoni con i cd, il traktor, o i vinili. L’unica cosa che conta è che tu li faccia ballare, come è giusto che sia.
English Version:
A few days before “After Dark”, his latest compilation, was released on Late Night Tales, we came across a true dance music encyclopaedia. Bill Brewster from Grimsby, United Kingdom: dj, writer, journalist and vinyl collector for almost half a century. Especially this latter aspect has conditioned him to the point that he said that everything that he experienced in his musical career started from that obsession. Years ago, I admit almost by accident and on my brother’s advice, a book called “Last Night A DJ Saves My Life” (of which Bill was one of the two authors) came across my hands. The text was a veritable bible of DJing, with interviews and anecdotes of almost 100 years of history, that pretty much no one before had been able to put together. It ‘was like a revelation and helped me to better understand the roots of what is live day by day. There were names and situations that I had never even heard before, but in some way I felt them so damn close to myself. Since it doesn’t happen every day to chat with someone in possession of so much information and who has lived the evolution of music even on his own skin, I took the opportunity to treat some of the main topics on which the industry and the community are debating for a long time: how the way of conceiving music has changed over the years, and again the changes in the role of the dj, the promoters and the clubs. Bill, not at all frightened by so many questions, not even flinch when we touched sensitive issues such as homosexuality and drug use combined with musical environment. Apart from recommending you to absolutely buy his book, I want to dedicate to all of you this wonderful interview, like it was an early Christmas present. This is something that everyone who deeply loves clubbing and electronic music, like myself, should read as often as possible . Maybe just as a reminder, not to forget why we love so much this world!
If you don’t mind, given your vast experience, we’d like to “use you” to make a good talk dwelling upon various aspects of the music world and how they have changed over the years. Are you ready?
I’ve got my flight cap and goggles on in preparation.
First of all, I have been enjoying your latest Late Night Tales edition – After Dark. Did Late Night Tales approach you with the concept?
About four months ago I did a Boiler Room set with Friendly Fires for Late Night Tales and I ended up playing for well over an hour when one of the FF boys was ill. The guys at Late Night Tales really liked what I played and suggested the style of music I was playing might make a great compilation series, so I went away and came up with a bunch of tracks I thought would work well together.
Do you have any personal favourites from the selection and if you could choose one situation/location to listen in ideal conditions, what would that be?
Mmm, it’s really hard to pick favourites from the whole mix but if I had to plump for one it would be the Marti Caine song that starts the album, mainly because she is a very unlikely artist to find on such a mix. She was a famous comedienne from Sheffield, who also sang a bit, but was really a typical 1970s family entertainer, rather than a credible soul star or disco diva. There’s not much else on her albums that anyone could play in a modern club environment.
This could appear trivial, perhaps actually kinda is, but if today Bill Brewster could present Bill Brewster to our readers how would he define himself? DJ? Clubber? Writer? Collector? Has any aspect prevailed over the years or you’ve always tried to balance them?
I am firstly a record collector. Everything that I’ve ended up doing in the music industry has flowed from the fact that I collect records. I started buying 45 when I was ten years old, a long time before I ever went to a club or started DJing. I began playing at parties because I had a lot of records, not because I was necessarily any good at DJing or had a particular aptitude for it. I started writing about music because I was passionate about the music that I liked, but really it just came from reading music magazines and LP sleevenotes. I’m very lucky to have been able to earn a living being involved in music for as long as I have.
How did a young man from Grimsby, not exactly the Mecca of clubbing, experience the passion for music? What were the key factors in your musical growth?
Well, Grimsby might not be the centre of the universe but in the early 70s it did have a really strong club scene because of the northern soul parties being held in nearby Cleethorpes (at both the Winter Gardens and the Pier). In some ways, I think the reason I’ve got such a wide appreciation of music is because I grew up in a bit of a backwater, so I had to buy whatever I could find, no matter what genre it was. We never had a record store the whole time I was growing up, so I used to hunt in junk shops and second hand shops for 45s and LPs. Then, when I was 16, I discovered the John Peel show late at night on Radio 1 and that had a huge impact on me, because it was like a window on the world of music. And it’s important to remember that although John Peel was associated with punk then he played a huge variety of music, everything from 1950s swing and jump records right through to weird electronic music, proto-industrial stuff and oddball things like Ivor Cutler (a Scottish-Jewish poet who recited poetry over a wheezing harmonium).
Did you immediately fall in love with electronic music or has it been a gradual approach?
Initially, it was gradual. The first electronic record I bought was ‘Autobahn’ by Kraftwerk, when it was in the pop charts in 1975. The Big Bang was in 1978 when Human League’s ‘Being Boiled’ and The Normal’s ‘Warm Leatherette’ were both released. I went to see Human League play at the Marquee and was blown away by it all. Very futuristic. From there, I started to look for more electronic stuff and then there was a flood from 1980 onwards with the New Romantic explosion in the UK. But at the same time I was also discovering black music, too, bands like Cameo, Spunk, George Benson, Curtis Mayfield, so there was a parallel odyssey between white electronic music and black funk, which met in the middle when electro arrived.
Once arrived in London, how did it change your way of seeing things? What were the clubs in which you have lived the best moments? And how was the crowd at the time? Do you think there was more eagerness to have fun without frills compared to today?
When I first moved to London in 1977, I hardly ever went to clubs. I was going out to gigs all the time, everything from the Sex Pistols to the Clash, Specials, B-52s, The Cramps, an endless list…. I started going clubbing seriously at the end of 1980 and I was living in the north of England for a few years, so I’d go to the Warehouse in Leeds and the Garage in Nottingham. Those were the two big clubs for me, where they played a huge mixture of music. At the Garage, they had a guy called Martin Nesbitt playing Nuggets-type music (garage-punk, Hoodoo Gurus etc.) in the basement and then in this small room upstairs, Graeme Park was playing early hip hop, electro and things like Jonzun Crew. At the Warehouse, they mixed everything up really well, so you’d hear D Train next to The Clash and SOS Band with Soft Cell. It was a great combination and it was also the first time I’d heard anyone mixing. I moved back down to London in 1986 and started going out to warehouse parties there, where again the music was really mixed – more black – and the drugs were spliff and Red Stripe. It was a brilliant period in London, so when house music first arrived I didn’t want to know, because these parties were so great I didn’t want anything else. (I regret this now). Then an ex-girlfriend took me to a gay club called Troll and I had an E….
An then you became part of the gay scene in London. Why did it attract you so much to spend a few years to follow it? What made it different from a point of view both musical and sociological from the other club cultures?
It wasn’t deliberate, but a happy accident, really. Also, I’ve had gay friends since I was 16. My first encounter with gay culture was in 1979 when a colleague of mine took me to see a play called Bent, about the treatment of gays by the Nazis. It starred Ian McKellen and Tom Bell. It was his way of coming out to me. I had no idea about gay culture then – although two of my best friends at college were both gay (neither they or I knew that then). Since then I always seem to go out with girls who had gay friends (I hate using that term fag-hags, it’s so misogynistic) and one of them took me to Troll in the summer of 1989 and from there I didn’t go to a straight club for the next three years, apart from occasional trips to the Ministry of Sound when it first opened. I was completely immersed in it. I went to Troll every week. Then when Trade opened I went there, too. Then there were other parties like FF and Attitude, which I also went to regularly. In 1994, I moved to New York, and you can’t be involved in dance music in that city without making friends with gay men. I’d say the industry was 70% gay in New York when I lived there. I loved it. I don’t know why, but I feel at home in that culture. It’s not a self-conscious sociological reason, I just like hanging out with queens!
Like you said, in 1994 you moved to New York: maybe a little ‘too late to live the golden 80s of Dave Mancuso and Larry Levan but I don’t think you got bored over there right? How did the U.S. scene appear during so many exciting years? And who were the djs that have most influenced you during this trip? You often mention the legendary Danny Tenaglia and Junior Vasquez, resident dj from the Sound Factory.
I met Frank Broughton in New York, precisely one week after I moved there and we became instant best buddies, along with a big gang that included Adam Goldstone (Superstars Of Rock), who was working at Wave then and Bruce Tantum, who is now club editor at Time Out NYC. We went to Sound Factory every Saturday until it shut down in 1995. We were big Junior disciples and we were lucky enough to get to see him play regularly on that fantastic sound system in a brilliant room. At the same time this was happening we became very close friends with Rob Di Stefano, who was running Tribal America, and through him, Danny Tenaglia, who was recording for Rob. At that time, Danny did not have a residency but he was desperate for one, so any gig he played in Manhattan, we’d be there as his cheerleaders and party-starters. So I was very fortunate to see two of the best DJs in the world playing regularly and hanging out in the booth with Danny, who was very helpful to me and was a real inspiration, not just in terms of his sets, but the application and work he put into each set to make it special, all the edits he would do and how relentless he was in record stores looking for unique music for him to play. It made a big impression on me.
What were the main differences between UK and U.S. in the way of conceiving music and organizing parties?
There aren’t any really. A great party is the same everywhere. All you need is a great crowd, a simple room, a half-decent sound system and a good dj.
In your opinion, why today does the US scene thrive mainly on EDM and passing trends and seem to have lost a large part of that underground matrix that cities such as London and Berlin have (in part) managed to preserve?
I don’t think it’s completely fair to characterize all of the US as being under the spell of EDM. There are loads of interesting things happening there but most of them are probably overshadowed by how newsworthy EDM has become there. Also, while I don’t really care for much of the music being played and supported at those large events, I think it’s exciting to think of all the interesting artists and music that will come out of this explosion in five or ten years’ time when all these 13-year-old kids turn from enthusiasts to producers.
At some point in your NY experience you decided, along with Frank Broughton, to write “Last night a DJ saves my life”, which is now perhaps the best collection of stories about the history of DJing available. When I read it a few years ago I realized how many things I did not know. It’s amazing how much information you found. Did it happen to you while collecting – to find people who were particularly open with you? Or maybe even someone who hadn’t a great desire to tell his own story…
Thank you. Within two weeks of meeting each other we’d decided we wanted to write a book together about New York dance music culture, just because it was so obviously rich with history and great stories. Once we started working on it, more and more stories kept emerging as we did more research and interviewed all these amazing people. Everyone was incredibly helpful to us, giving us suggestions of who else we should speak to and where else we should search. Several of the protagonists in the book have become really good friends who I still talk to regularly now. It was an amazing experience writing it and a real privilege for us to be the first ones to get there and tell all those incredible stories about DJs that most people had forgotten about.
A fundamental issue to talk about is how the role of the DJ has changed over the years. I believe that no one is more suitable than you to answer this question: once upon a time people went to particular clubs and became regulars, rather than follow specific DJs. Over time the audience has focused more on the name that is playing rather than the sensations related to the club where it is happening. Why in your opinion has this aspect changed so drastically?
It’s happened because the club scene has become completely dominated by promoters, and I think they are more susceptible to marketing and hype than the average DJ is. It’s a shame you don’t get more DJs who only play in one club and for the whole night, because I think it’s so much easier to break records and there’s also a much stronger bond between dj and dancefloor.
During one of your interviews I heard you say that many of the people who really made history with their DJing have hardly made any money and it is also to shine light on them that you and Frank have written “Last Night a DJ Saved My Life”. Why today appears almost utopian to believe that there was someone who put passion prior to anything else?
The big difference between the pioneers and now is that is obviously a potentially lucrative career path for someone to pursue. I think this alone alters the attitude of many of the kids who want to become DJs, in comparison to, say, Francis Grasso in 1969. A DJ in the early ’70s, although worshipped by the small coterie of people who went to the clubs, were paid really badly and only did it because they were passionate about music. Right up until the acid house explosion in 1988, DJs were uniformly paid badly almost everywhere so you only did it because you loved it. Now that’s not the case, but there are still lots of people playing music who genuinely do love it. Getting paid is a bonus.
Instead today we are facing DJ-Rockstars who receive big bucks and fill stadiums all over the world. Just think about how djs such as Sven Vath, Richie Hawtin, Luciano and others have created their own brands and booking agencies being able to dictate over much of the world market. Don’t you believe that this kind of change has partly killed the soul of music in exchange for the business? What do you think is the reason behind this radical change in the way of conceiving the dj?
Electronic music has become hugely popular and in the type of culture we live in, that means it needs heroes to promote it. Personally, it has little to do with me and also I think it has very little to do with the culture that produced it. The point of a DJ is to have that interaction between dancefloor and spinner. Without that, you’re not DJing, you’re just playing someone else’s records.
What do you think is the best way to get out of this impasse?
Ignore it and do your own thing.
I know that this frequently turns out to be a taboo subject, but since you have a very broad view of club culture I’d like to know your opinion about drugs. Why this aspect has had such a central role during the last 50 years’ musical history, including non-electronic genres?
My view on drugs is based not on morals or laws, but on facts. There were 8,700 alcohol-related deaths in 2011 in the UK. There were around 100,000 smoking-related deaths that year. By contrast, there were 112 deaths attributed to cocaine misuse and only 62 for all amphetamine (including ecstasy). There were more deaths attributable to Aspirin and Paracetamol (218) than ecstasy, cocaine and amphetamine combined. So firstly, I think we need put this into perspective. Music has always had drugs associated with it, going right back to the 1920s and before, whether it’s cocaine and jazz, reggae and cannabis or house and E. Young people want to experiment. You think you are invincible when you’re young and partying and doing drugs is part of that. Some drugs do make music sound better, I think. It was certainly the case for me. I think we have to look at the way the laws are made. It’s seems really odd to me that a Member of Parliament who smokes 60 cigarettes a day and gets pissed regularly is seen as a respectable member of society, while an 18-year-old kid who does an E once a month is regarded as an outlaw. I think that’s wrong.
I’ve read that you are a great vinyl collector. I know that this has been already asked hundreds of times, but what are the records in your collection that you feel particularly attached to?
That’s like asking me to pick my favourite child. Most of the records that I really love are not rare, they’re special because of when I bought them or why. I still have a lot of affection for ‘Rock On’ by David Essex because it was one of the first 45s I bought and I still have my original copy. The Undertones’ ‘Teenage Kicks’ in its original newspaper sleeve is another one. My favourite house record is 51 Days’ ‘Paper Moon’. I’ve got two copies of that, one on the original label and one on Bold in the US. Beyond that, it’s really hard to say. I could probably name another 200 records off the top of my head here….
I know that for years now you moved onto CDs, then I guess you’re not a “vinyl fundamentalist” like many of your colleagues. Where do you stand in this controversy between purism and technology? What is your current setup when you play?
I use CDs when I play now, but I do have Traktor at home, which I’m fiddling with (and may well move to sometime soon). I’ve been using CDs exclusively for a long time now. I still collect vinyl. I still love vinyl. But I just find it bizarre that some people are anti anything other than vinyl when technology has moved on and can offer so many possibilities. Dance music is driven by technology, so why are DJs not following the lead it’s setting? No one on a dancefloor cares whether you are playing CDs, using Traktor and spinning vinyl. They only care whether you make them dance. That’s how it should be.