Il Belgio è stato senza un governo per anni. Senza entrare nel merito di discorsi politico-economici, a livello di mentalità vorrà significare qualcosa, no? Prendiamo la musica proveniente da quelle parti, nello specifico quella da club, e scorriamone velocemente la lista dei dj / producer: Fabrice Lig e Spirit Catcher, Frank De Wulf e Tom Hades, Peter van Hoesen, Kid Creme e Junior Jack, The Magician, Sons of Tiki e, non ultimi, i 2ManyDjs. Voi direte: “eh ok, grandi nomi, ma che c’entra? che vuoi dirci?”. Ecco, andate oltre i nomi, guardate i generi proposti e noterete, credo piacevolmente, una varietà di sonorità davvero al limite del confusionario. Con un piccolo sforzo andate ancora oltre, alla visione che, dall’estero, generalizzando ci si fa di un intera scena nazionale: gli italiani fanno house; i tedeschi, manco a dirlo, techno; i francesi, dopo anni di deep, oramai sono specializzati nell’elettro. E i belgi? Voglio dire, dopo la piccola lista poc’anzi redatta, la scena belga come la inquadriamo? Difficile, se non impossibile, una classificazione generica. Insomma i belgi, a farla breve, sembrano odiare inquadramenti vari. O meglio, i belgi, in nome di chissà quale simulacro del giusto e del bello, culturalmente fanno un po’ quello che sentono meglio fare, senza porsi fisime da “mancanza di definizione”. E ci prendono, crescono ed esportano lavori davvero notevoli, da sempre. Appurato analiticamente questo, la nuova scuola belga che cosa propone oggi? Un nome su tutti è sicuramente quello di Tim Van De Meutten, conosciuto dai più con il moniker di Locked Groove, la cui storia breve ma intensa è davvero esemplificativa.
Lanciato un paio di stagioni fa da Tiga e la sua Turbo Recordings, Tim ha legato la sua crescita artistica a Scuba e Hotflush, per la quale ha debuttato un anno fa con due EP (“Keep It Simple” & “Rooted”) che hanno riscosso un enorme successo di vendite oltre che l’inevitabile, classico consenso ecumenico da parte della scena underground europea. Non c’è due senza il tre, si dice, ed infatti ecco che tra le nostre mani piomba la sua terza ed ultima fatica, ancora sulla ormai storica label inglese di Mr Paul Rose: un doppio EP, 6 tracce in totale, dall’esemplificativo tanto quanto evocativo nome “Heritage”, che letteralmente vuol dire “retaggio”, “eredità”. Nello specifico, a quale retaggio si allude? A che tipo di eredità fanno capo queste sei tracce? Ascoltatele con calma, vi renderete subito conto che tutto quello poco sopra detto, per varietà di genere, trova riscontro maledettamente veritiero in questo doppio EP.
Partiamo dal principio. La prima traccia, “Do It Anyway”, ricorda complessivamente (forse davvero un po’ troppo) le sonorità deep alla Visionquest / Life And Death che tanto di moda sono andate e che tanto commerciali sono per questo stesso motivo diventate: chord strappalacrime, basso rimbalazante, shaker e doppio clap in mini-delay, il tutto d’un apparente semplicità al limite dello stucchevole. Ma attenzione, a differenza delle crew sopracitate, Tim fa ballare, mantiene nella sua semplicità una certa genuinità che comunque ti fa muovere, ti prende e, cosa piu importante, non ti fa annoiare. Non la traccia dell’anno insomma, ma sicuramente un buon inizio. Seconda traccia, “Wear It Well”. Ecco, già qui si percepisce chiaramente il discorso del “Belga = faccio quello che mi va”. Agli antipodi rispetto alla traccia di partenza, “Wear It Well è un tentativo di futurizzazione in stile techno dell’house vera, quella dei groove alla Kerri Chandler e del recupero dell’old school. Per scrivere il futuro però non si può prescindere dal conoscere dignitosamente il passato: Tim l’esame lo passa a pieni voti, sfoggiando una padronanza degli elementi ritmici e strumentali della classic house davvero interessante. Seguono a ruota “Firefall”, bellissima nel suo incedere sostenuto dalle sonorità spaziali, e “Night Time At The Garage”, una sorta di reprise delle tematiche già affrontate in “Do It Anyway” ma con parecchia freschezza e forza d’impatto in meno.
Ma è con le due tracce finali che la nostra tesi iniziale riprende forza e ritrova prove schiaccianti. Nell’ultima traccia, chiamata evocativamente “Lost”, Looked Groove affronta per la prima volta nella sua breve seppur d’impatto discografia il tema dell’introspettività, lavorando inusualmente moltissimo sulla struttura e sull’avvicendamento sonoro della parte strumentale, ruvida e romantica allo stesso tempo, lasciando per una volta in disparte i tanto amati studi sulle parti ritmiche. Lavoro, quest’ultimo, da analizzare ancor piu attentamente alla luce, oltre che dell’EP nella sua interezza, anche dell’ultima traccia, “Dream Within A Dream”, vero capolavoro dal gusto interstellare, reminescenza forse di certi ascolti compiuti da Tim in gioventu, ricalcaldo piste a cavallo tra la trance e l’elettronica “alta” alla Border Comunity e Bpitch Control.
Detto tutto questo, raccolto tutti gli elementi disponibili, possiamo ora finalmente rispondere alle domande che ci siamo posti: “Heritage” nel suo complesso si fonda su un retaggio ampio, amplissimo, che Tim ha ereditato da se stesso e da quello che la scena del suo paese, il Belgio, nel suo intento di essere libero da dogmi canonizzatori, ha offerto in questi lunghissimi venti anni. E c’è di più: Locked Groove è riuscito ad esportare su una label inglese il suo musicalmente “essere belga” riuscendo ad esprimere con semplicità e voglia di mettersi in gioco un range di conoscenze e sensazioni che, questo è poco ma è sicuro, non ti aspetti da un artista così giovane eppure già cosi poliedrico e sicuro.
I belgi insomma continuano a lavorare, produrre senza limiti, continuano ad esportare giovani e sono liberi. Pur rimanendo senza governo per due anni. Che sia questo il modello da seguire?