Da dove iniziare? Cos’è che c’è da raccontare e spiegare di un festival che da 13 anni viaggia forte nella sua location perfetta, integrata intorno ad una città che lo segue senza vergognarsene ma che ne fa un motivo di vanto? C’è sicuramente da raccontare cos’è successo sui suoi 7 palchi, perché la musica è tutto e di sorprese, novità e belle ri-scoperte ce ne sono state tante. Forse così tante che dover scegliere ad un certo punto è stata forse la cosa più difficile di questa tre giorni al Parc del Forum di Barcellona.
Il Primavera Sound ha poco a che vedere con quello che vi abbiamo abituato a seguire, è più orientato al nostro nuovo “beyond” che all'”electronic music” che lo precede con cui da tempo scegliamo di legare il nostro nome. Primavera Sound porta sotto il suo gran cartello i Blur, The Postal Service, My Bloody Valentine, Phoenix, Nick Cave & The Bad Seeds, The Jesus And Mary Chain ma anche Scuba, The Magician, Crystal Castles oltre a un’infinità di roba che non vi sto neanche a dire (c’è spazio anche per uno spicchio dedicato alla Boiler Room). Un festival che viene definito il migliore del mondo, forse per essere un pochino più onesti il migliore d’Europa.
Questa per alcuni di noi è stata la prima edizione, e non ci vergognamo ad ammetterlo. Non ci siamo vergognati di scoprire cosa significasse avvicinare un gigante, accanto ad amici ormai rodatissimi e addetti ai lavori con anni di esperienza. Il nostro percorso inizia giovedì pomeriggio, siamo davanti ai Poolside, il gruppo americano che avevamo avuto il piacere di intervistare nel 2012 quando ancora non avevano pubblicato “Pacific Standard Time”. Filip Nikolic e Jeffrey Paradise divertono, ma lasciano spazio anche a tante imperfezioni. “Harvest Moon” la cover di Neil Young, live è disastrosa, la voce è impercettibile ed è un peccato perché questi due ragazzi meritano davvero. Il tempo di attraversare tutto il forum e ci troviamo nel main stage dove stanno per esibirsi i Tame Impala, il gruppo australiano che ha mandato in delirio la maggior parte d’Italia con il singolone “Feels We Only Go Backwards” qui invece viene apprezzato totalmente, considerato anche che l’album da cui è estratto (Lonerism, 2012) è anche il loro secondo album, quello della consacrazione. Perché c’è da dire che al Primavera si respira soprattutto aria di certezza e cultura musicale. Dove il vicino male che vada quando canta a squarciagola sbaglia una strofa, ma sa bene cosa aspettarsi da ogni artista che sta guardando. Niente e nessuno è alla scoperta di qualcosa, sono tutti lì per ascoltare quello che aspettano e lo desiderano piacevolmente. Il tramonto spettacolarizza il tutto, più dei visual che accompagnano lo show di David Parker e soci. Ci spostiamo verso lo stage Pitchfork, dove sta per esibirsi Jessie Ware, voce che sicuramente la maggior parte dei nostri lettori ha sentito sulle basi di SBTRKT e Joker ma che da il meglio di sè quando interpreta (in modo pazzesco aggiungiamo…) i classici del suo “Devotion”. C’è tempo per tutto: dondolare estasiati mentre interpreta “Wildes Moments” o ballare scatenati su “110%” (il brano prodotto da Julio Bashmore). Una delle conferme migliori che abbiamo ottenuto da questa edizione. Corriamo verso lo stage Heineken (il main stage), ci sono i Postal Service che ripropongono “Give Up” dopo dieci anni dalla sua pubblicazione. C’è tanta gente sotto la ruota panoramica che sovrasta lo spazio enorme davanti al palco, ed è tutta in attesa di ascoltare quello che hanno ancora da dire Jimmy Tamborello (vi dice niente Dntel?!) e Ben Gibbard (voce e leader dei Death Cab For Cutie). “Give Up” merita qualche parola in più, perché è l’album che nel 2003 ha cambiato per sempre il mondo dell’indietronica, ha fatto sognare una generazione intera e rappresenta per alcuni di noi quello che in passato album come “Lovless” (My Bloody Valentine, 1991) hanno rappresentato per altri. Sul palco ci sono tutti, anche le due voci femminili Jenny Lewis e Jen Wood. Sulle note di “The District Sleeps Alone Tonight“, “Such Great Heights” e tutto il resto del capolavoro la folla impazzisce sotto lo sguardo vigile della luna piena. Gibbard non si ferma un attimo e sembra non essere invecchiato, così come la musica che sta suonando che è ancora attualissima e più fresca di tanta roba che ascoltiamo oggi. Quando i ragazzi finiscono di esibirsi decidiamo di affacciarci negli altri stage prima di affrontare il grande, attesissimo, concerto dei Phoenix. Guadagniamo un posto sotto il palco e ci affacciamo verso il fondo per cercare di decifrare il numero di persone presenti, numeri importanti che però verranno polverizzati il giorno dopo dai Blur. Nell’attesa parliamo con altri addetti ai lavori, con cui speriamo succeda quello che è successo durante il concerto dei francesi al Madison Square Garden di qualche anno fa, cosa che alla fine non è avvenuta, ma di sorprese ce ne sono state lo stesso. I Phoenix rispolverano pezzi del vecchio “Wolfgang Amadeus Phoenix”, li mischiano con brani nuovi di “Bankrupt!” e ci infilano dentro anche “Too Young“, quasi un -greatest hits- che come qualcuno suggerisce non può essere definito tale per la mancanza di “If I Ever Feel Better“. Lo spettacolo è incredibile, audio e luci mozzafiato accompagnano uno dei due colpi di scena: l’eruzione di 42.000 banconote personalizzate dal designer Richard Prince sulle note di “Bankrupt!”. L’altro durante la seconda passeggiata di Thomas Mars tra la folla, l’apparizione di J Mascis dei Dinosaur Jr. (uno che è stato votato tra i migliori chitarristi di tutti i tempi) che chiude con un assolo dei suoi un concerto che ci ha fatto ricredere completamente, visto lo scarso entusiasmo per l’ultimo album e l’ormai svanito effetto sorpresa (avevamo già visto la band al Field Day un paio di anni prima). Invece i Phoenix si confermano una delle band migliori e rimangono tra le cose più belle viste durante questo festival.
Il day 2 parte con Solange, la “sorellina” di Beyoncè che sta facendo impazzire mezzo mondo. Sul palco la ragazza ci sa stare e lo stage Pitchfork la segue senza indugi. Tra funk e grinta da vendere Solange conquista tutti e ci regala anche una splendida cover dei Dirty Projectors. Ci affacciamo al main stage dove stanno per esibirsi The Jesus And Mary Chain, il gruppo scozzese dei fratelli Reid che in passato poteva contare anche su Bobby Gillespie (leader dei Primal Scream). L’effetto nostalgia è dietro l’angolo e per chi è cresciuto con “Just Like Honey” e le altre grandi hit del gruppo, vedere sul palco un’istituzione del genere svogliata diventa un fastidio piuttosto importante, decidiamo quindi di abbandonarli e ci troviamo per caso davanti allo stage Ray-Ban dove si stanno esibendo i malesi Tinariwen, veniamo completamente rapiti dalle vibrazioni che emana il gruppo di Ibrahim Ag Alhabib. Ci lasciamo andare sulla musica tuareg che manda in delirio una platea inaspettata e ringraziamo di essere capitati al posto giusto nel momento giusto. Il fastidio è alle spalle, siamo pronti per affrontare la massa enorme che si è accumulata sotto lo stage Primavera per assistere al live di James Blake. Il ragazzo fa il suo, e lo fa bene. Niente a che vedere con la porcata a cui avevamo assistito quando aveva presentato il suo dj set. La folla va in delirio e quasi si dimentica degli acciacchi dovuti alle distanze tra un palco e l’altro o al clima per niente amichevole degli ultimi giorni. C’è vento, ma ci sono anche i bassi del giovane inglese a riempire il corpo e l’anima di tutti noi. Il cielo si schiarisce e noi voliamo via insieme alla nuvole per andare ad assistere al pezzo forte del giorno: i Blur. Si parte con “Girls And Boys” ed è subito un karaoke a cielo aperto. E’ festa grande, Damon Albarn & co. suonano tutto il loro immenso repertorio, un greatest hit live che ti entra dentro e ti fa diventare parte integrante dello spettacolo. Tutto l’opposto di quello che avevamo visto qualche ora prima sullo stesso palco, tanto che la felicità è talmente tanta che ci uniamo al resto del mondo e cantiamo a squarciagola ogni singolo pezzo: “Out Of Time“, “Tender“, “Beetlebum” ma anche “Coffee And Tv“, “Parklife” e ovviamente “Song 2“. Un’ora e mezza che ci fa passare il malumore per esserci persi Daughter nello stage Vice. Andiamo a casa felici e contenti, dribliamo con dispiacere i The Knife, siamo stanchi e manca ancora l’ultimo giorno.
Il terzo ed ultimo giorno il vento e la fatica ci ricordano tutto quello che abbiamo vissuto i giorni precedenti, le distanze tra i palchi ci costringono a fare molte più soste nei punti di ristoro o nel mercatino di dischi dove non manca uno stand “Rough Trade” perennemente assediato dalle migliaia di ragazzi che sono nel Parc. Ci sono vinili, cd e ovviamente magliette e borse di tutte le band più importanti del cartellone. La notizia del giorno è la rinuncia dei Band of Horses, che sono stati bloccati dall’emergenza uragano che ha colpito l’Oklahoma (ennesimo nome a saltare dopo Fiona Apple e Rodriguez). Gli organizzatori decidono di rimpiazzarli con i Deerhunter e noi siamo felici perché avevamo deciso di accantonarli nel day 1 per assistere all’esibizione dei Postal Service. Assistiamo ai primi pezzi della band di Bradford Cox e ci dirigiamo verso gli altri stage dove si stanno esibendo tra i tanti anche i Dead Can Dance e Dan Deacon, ci dimentichiamo invece completamente di Mac De Marco e ci torna in mente il “problema” (passateci il termine) più grande di una rassegna del genere: la scelta infinita che ha il pubblico. E’ arrivato il momento di andarsi a sentire un’altra istituzione presente a questa edizione, i Wu-Tang Clan. Gli americani non si risparmiano e coinvolgono il pubblico a dovere, raccontano a loro modo una storia, ci portano con loro e c’è tempo anche per scoprire qualcosa che per noi è pane quotidiano. Ci ricordano che dalle loro parti i dj suonano con il vinile (anche se intravediamo più di una volta un laptop vicino al giradischi, ma non importa, a loro concediamo quasi tutto) e Dj Mathematics ci mostra tutte le sue skills a botte di scratch: con le mani, i gomiti, la bocca e addirittura i piedi. E’ uno spettacolo continuo e il Clan di spettacoli se ne intende da sempre. Maciniamo ancora metri (forse km) e ci spostiamo ancora sotto la grande ruota panoramica per assistere al concerto di Nick Cave & The bad Seeds, per poi passare ad ascoltare i Liars prima della grande scelta: My Bloody Valentine o Crystal Castles?
Veniamo rapiti dai secondi, consapevoli che un posto in gradinata seduti al riparo è attualmente una scelta fisica migliore rispetto al tour de force in mezzo alla folla che sarà accorsa al main stage. Siamo consapevoli di averla fatta grossa, ma ci consoliamo con l’idea che in settimana potremmo sentire una delle band più importanti degli ultimi decenni in Italia, in un altro palco, con tutt’altra situazione (si, ma almeno non li avremo persi). Lo stage Ray Ban viene assediato dai fan di Alice Glass e Ethan Kath e lo vediamo passare in mezz’ora da vuoto a stracolmo. Sul palco va avanti il check luci e la gigantografia della cover di “(III)” rende bene l’idea di quello che ci aspetta. Il gruppo sale sul palco, un boato accompagna i primi synth, i ragazzi non si fanno mancare niente, sfoderano tutti loro grandi pezzi compreso “Crimewave” e “Vanished” oltre ai brani del loro ultimo album. La folla non si ferma un secondo, luci pirotecniche e kick micidiali. Alice decide di tuffarsi tra il pubblico che ovviamente va in delirio. Si spengono le luci e i ragazzi se ne vanno così come sono entrati, senza salutare, freddi e cupi in pieno stile Crystal Castles. La gente si muove verso gli altri stage, dove inizieranno altre mille storie, che noi decidiamo di non vivere. Abbiamo un volo da prendere, per noi il festival finisce qui.
Le considerazioni potrebbero essere infinite, ma sarebbero figlie anche di un’unica esperienza. Per questo lasciamo spazio solo alle emozioni, quelle che ci hanno tatuato questi tre giorni sotto pelle per sempre. La prima volta non si scorda mai dicono. E noi siamo convinti che torneremo ancora e sarà di nuovo come la prima volta, così come lo è per tutte le persone che sono tornate e hanno visto di nuovo un mondo perfetto. Questa notte il Parc torna a dormire da solo e noi invece ci sentiamo finalmente in compagnia, di tutti quelli che ci hanno sempre raccontato cosa si provasse al Primavera Sound.