Cresce. S’insinua. Ti penetra sotto pelle. Soprattutto, ti penetra nella mente. Erano veramente anni che non affrontavamo un disco così tanto in grado di crescere ascolto dopo ascolto. Perchè sì, la prima impressione su “Tomorrow’s Harvest” era stata tiepidamente, cortesemente positiva. C’è chi ha scritto su internet sulla nostra bacheca più o meno “Era ovvio che Boards Of Canada ti sarebbe piaciuto e Daft Punk no”: in quel post si diceva che qua si fosse decisa la recensione positiva per Boards e negativa per i Daft a priori (falso), ma il fatto che da queste parti di chi vi sta scrivendo si tifasse di più per i due scozzesi misteriosi (perché non si fanno mai vedere) che per i due francesi misteriosi (perché girano sempre col casco) era vero.
Perché? Perché i Boards Of Canada hanno (re)inventato l’elettronica molto più di quanto abbiano fatto i Daft Punk. I primi le hanno dato un’anima sfaccettatissima nelle emozioni, i secondi un vestito dance assolutamente perfetto ed inappuntabile. Bravi tutt’e due, caposcuola tutt’e due. Ma fra una musica che fa (soprattutto) ballare e una che fa (soprattutto) pensare, scusateci, noi sceglieremo sempre la seconda. Senza voler sminuire ciò che è principalmente dance. In più, lì dove i Daft Punk – o chi per loro, vedi adesso la loro nuova etichetta – sfruttano il più possibile tutti i meccanismi del pop e del mainstream, facendolo peraltro in modo molto intelligente e creativo, i Boards non sfruttano un bel nulla. Al massimo fanno dei giochetti per i fan più malati di mente, delle robe da nerd che la rete, ovviamente, amplifica. Hai voglia a dire che sia per “Random Access Memories” che per “Tomorrow’s Harvest” si è seguita la stessa strategia promozionale: l’unica cosa in comune era la complessità, ma tutto il resto (budget, vip musicali e non coinvolti, gestione della promozione coi media) è andato in direzioni opposte.
Quindi ecco, qua si tifava Boards Of Canada. Per i motivi di cui sopra e anche per altri che diventerebbe pedante elencare. Il primo ascolto però di questo loro lavoro tanto atteso (l’ultimo LP, “Campfire Headphase”, è del 2005) non era stato entusiasmante. Certo, c’erano alcuni momenti a prima vista riconoscibili come stupendi, vedi “Palace Posy”, “Come To Dust”, la cupa chiusura a nome “Semena Mertvykh”, ma complessivamente ci pareva che mancasse una costanza nella quantità e qualità delle idee melodiche ed armoniche. E che fosse distante dai vertici dei loro lavori precedenti.
Il che è anche vero, a dirla tutta. E’ che si scopre, al terzo o quarto ascolto, che la quantità principale di “Tomorrow’s Harvest” è da un lato la compattezza dall’altro – e le due qualità sono in realtà assai intrecciate – la capacità di creare un mondo a se stante, in un modo che nessuno dei loro album precedenti aveva mai fatto o provato a fare. La prova del nove la si fa così: si ascolta dall’inizio alla fine il disco dei Boards, poi si prova a sentire un altro disco. Qualsiasi disco, di chiunque. Possibilmente uno che sapete vi piace parecchio. Bene: quello che succederà è che qualsiasi altra forma di musica vi risulterà un po’ fastidiosa, indesiderata, al momento petulante. Ed è lì che capirete che il potere “immersivo” di “Tomorrow’s Harvest” è pazzesco. E’ al livello delle migliori cose dei Pink Floyd. Psichedelia che ti porta via. Un approccio del tutto antimoderno, nel senso che nella contemporaneità musicale si privilegia un ascolto veloce, che può durare anche solo una traccia (su internet si ascoltano le tracce, mica gli album), che deve catturare il prima possibile e il meglio possibile, che deve avere dei pregi immediatamente riconoscibili.
Nell’immediato, di “Tomorrow’s Harvest” si ritiene che i suoni non siano niente di che, che le melodie non siano particolarmente originali, che le armonizzazioni non abbiano niente di rivoluzionario, che tutto sia ben fatto ed avvolgente ma francamente non geniale ed indimenticabile. Ma con un po’ di pazienza, salta fuori che tutti i suoni dell’album hanno una pasta loro ed inconfondibile, leggermente sporca ed opaca ma non lo-fi; salta fuori che melodie ed armonie ti si avvinghiano addosso e soprattutto non hanno mezza cosa fuori posto, se ci rifletti bene, e sempre se ci rifletti bene non sono mai e poi mai paracule; salta fuori che l’apparente staticità del disco è in realtà una velenosa (e calcolata al millimetro) sabbia mobile fatta per ingabbiare l’anima di chi ascolta. E la ingabbia veramente. Molto più di quanto possa fare la migliore iteratività minimal del miglior Hawtin o la cura dei particolari del miglior Villalobos.
Oh. Potreste anche trovare noioso, “seduto” ed inutilmente cupo questo disco. Ci sta. Sappiate solo che vi state perdendo un’esperienza emotiva molto particolare e molto intensa. Poi ok, non è scritto da nessuna parte che siate obbligati a ritagliarvi ogni volta un’ora e più di assoluta immobilità (assaggiato solo per singole tracce l’insieme appare insipido), di relax totale, di ascolto rigidamente in cuffia oppure rigidamente in solitaria (spinge talmente a concentrarsi su se stessi, questo disco, che ascoltarlo in due o più è a nostro modo di vedere sconsigliato, è un mezzo spreco). Ad ogni modo, tuttavia, “Tomorrow’s Harvest” è qualità suprema. Diversa, particolare, difficile; ma suprema.