Forse, è il caso di diventare adulti. Ma non quello di smettere di divertirsi. Ecco: se dovessimo riassumere in poche parole quello che ci ha detto un ventenne molto in forma, ovvero il Sonar (arrivato alla sua ventesima edizione), le parole potrebbero essere più o meno queste. D’altro canto è finita l’età dell’innocenza. L’innocenza pre-internet. Sì, perché chi vi scrive queste righe è abbastanza vecchio da ricordarsi di quando andare al festival barcellonese significava prima di tutto imbattersi in cose mai sentite e per certi versi nemmeno mai immaginate. Tenevi in mano il programma, già stropicciato dopo venti minuti a furia di guardarlo e riguardarlo, e vedevi in più di un caso dei nomi che ti dicevi “…e questo chi sarà, cosa sarà?”. Oggi, nel mondo spotifycato e pieno di deezerume, dove scaricare legalmente o illegalmente è più facile che lamentarsi della classe politica, in teoria sai tutto di tutto. O almeno ne hai la possibilità. Possibilità sfruttata da molti. La conoscenza è molto più diffusa (bello); ma di conseguenza il mistero e la sorpresa sono molto più difficili da vivere (molto meno bello).
Quindi ecco, se il cambiamento della location della parte diurna del festival – la grande sfida di quest’anno – significa prima di tutto essere più comodi e poter ospitare in modo più sensato più contenuti, a noi questa cosa pare altamente simbolica. Certo, come ci diceva un importantissimo dj e producer italiano “Non so, non mi ci ritrovo, bello è bello, ma la vecchia sede diurna dava più un senso di comunità, eri nel cuore del centro, uscivi e c’era la Rambla, ora è diventato un festival come altri per quanto forse più bello di altri”; nulla da dire, sono argomentazioni sensate. Ma cambia il mondo e cambia anche il Sonar. Il romanticismo e la nostalgia ci stanno, ma non devono far dimenticare che nella vecchia sede del Sonar Dia ad un certo punto 1) di venerdì e sabato ci si stava veramente stretti con una densità di folla feroce 2) c’erano dei punti di passaggio che erano veri e propri colli di bottiglia 3) ai concerti più importanti dovevi arrivare venti minuti prima almeno o stavi fuori o non vedevi/sentivi una mazza. Non sono difetti da poco. Certo, quei difetti rendevano per certi versi ancora più suggestiva l’esperienza del festival: a farne parte ti sembrava di essere un eroe e/o un titolare di un club ristretto, mentre poi al Sonar Noche arrivavano i parvenù. Umano, molto umano. Ma anche snob.
E il Sonar, non è snob. Che è uno dei motivi per cui gli vogliamo più bene. Il Sonar è il festival dove trovi Skrillex, Luciano e Kalkbrenner, ma anche quello dove trovi Pascal Comelade, Olafur Arnalds, Dinos Chapman. Ecco. Il modo più bello e soprattutto più intelligente di vivere il festival è godersi entrambi questi estremi, con tutti i gradi intermedi. Chi va a vedere solo Skrillex, Luciano e Kalkbrenner (per poi magari lamentarsi “Eh, ma ci sono sempre i soliti nomi di tutti i festival”) è un fesso; ma lo è anche chi si lamenta della loro presenza perché “sporcherebbe” la qualità del festival. Questa ventesima edizione, più di qualsiasi altra, ora che la location diurna è meno “elitaria” e più comoda per tutti, può insegnare a superare ogni forma di snobismo e a godersi – sì, godersi – una visione a trecentosessanta gradi su quello che succede nella galassia che per comodità chiamiamo “musica elettronica”. Ora che è più difficile non conoscere, non aver mai sentito nominare, sorprendersi, come si diceva ad inizio articolo, abbiamo finalmente la fortuna di poter ascoltare sereni, preparati, di goderci l’insieme perché non abbiamo più bisogno – o non più tanto bisogno – di concentrare sforzi per scoprire e capire le singole parti. Possiamo essere molto più rilassati. E trovare, finalmente, molto più stupide le guerre di religione tra ciò che è commerciale e ciò che non lo è. O meglio, non sono stupide, perché è sempre importante capire chi fa un lavoro di qualità e chi invece in modo paraculo sceglie la via più semplice per massimizzare i profitti; ma non devono essere guerre. Godetevela la musica, accidenti. Ce lo dicevano i Boards Of Canada in persona l’altro giorno, e loro non sono gli ultimi arrivati e non sono nemmeno tacciabili di commerciabilità: “C’è molta gente che odia della musica solo perché un certo tipo di altre persone la amano, ma questo ci sembra un modo un attimo insano di vivere la vita”.
Il vero pubblico del Sonar questo lo sa. Il vero pubblico del Sonar, ora che il Sonar Dome, il palco creato in collaborazione con la Red Bull Music Academy, è più grande e più largo e soprattutto ha finalmente un impianto più che decente, affolla la sala non solo quando ci sono TNGHT (deludentissimi, non vediamo l’ora che questa sbornia collettiva per il trap o chiamatelo-come-volete passi: è solo una baggianata da luna park, una barzelletta che dopo un po’ non fa più ridere, e la non-qualità del live di Lunice e Hud Mo lo dimostra) ma anche quando ci sono gli Elektro Guzzi, sempre bravissimi con la loro techno fatta senza laptop e solo con basso-chitarra-batteria. Il vero pubblico del Sonar diventa un oceano di gioia quando suonano i Modeselektor in dj set, tanto paraculi quanto bravi, ma ascolta con attenzione anche quando suona la kuwaitiana Fatima Al Qadiri (non male, sicuramente meglio nella sua etno-elettronica rispetto al turco Baris K).
Il pubblico del Sonar è anche quello che, la notte, riempie lo sterminato Sonar Hall e in un eccesso di presobenismo non manda a cagare Major Lazer (quand’è che finalmente qualcuno dirà a Diplo che tutta questa pantomima ha rotto il cazzo e il live set che presentano è una presa per i fondelli? Probabilmente quando la gente smetterà di divertirsi al live set suddetto) e non ride in faccia a Skrillex per la sua intro “turistica” (immagini di Barcellona da cartolina che scorrono sullo schermo, con in sottofondo un remix della retoricissima “Barcelona” di Mercury e della Caballé, inno olimpico nel 1992) oppure sopporta che i 2 Many Dj’s, ormai in corsa continua verso il prevedibile, infilino nel loro set “Get Lucky”. Certo, anche questo è il pubblico del Sonar. Che dobbiamo fare, incazzarci?
No. Perché il pubblico del Sonar è anche quello per cui Mary Anne Hobbs è una star, Jackson And His Computer Band merita un ascolto attento e un applauso convinto nella sua nuova ambiziosa veste live da nipotino svegli di Jean-Michel Jarre, Karenn (Blawan&Pariah) suonano di fronte a migliaia di persone, i Kraftwerk sono la cosa più emozionante ed importante della terra (e in versione 3D, come quest’anno, in certi momenti lo sono davvero; peccato solo la lunghezza eccessiva del tutto, quasi dure ore, troppo). Il pubblico del Sonar perdona ad Objekt un set che ad un certo punto va in confusione, il pubblico del Sonar spinge i Justice a fare un dj set decente e Hawtin a presentare una edizione di ENTER. interessante soprattutto per come fa artisticamente del bene a Maya Jane Coles (molto meglio il suo set lì che il disco appena uscito: la “hawtinizzazione” del suo suono, mirata e moderata, ci è parsa molto efficace sia per lei che per Hawtin, che invece di suo ha fatto un po’ sempre lo stesso set degli ultimi anni, non palloso come quattro, cinque anni fa all’apice del delirio minimal ma non life-changing come le sue a cavallo del passaggio di millennio).
Il pubblico del Sonar si gode gli artisti 50 Weapons in mezzo agli autoscrontri al Luna Park, non gli Eiffel 65. Il pubblico del Sonar fa chiudere il venerdì a Derrick May e il sabato a Laurent Garnier: è vero che entrambi fanno dei set prevedibili ciascuno nel suo, ma quando il tipico-set-di-May ti porta all’alba il giorno prima e il tipico-set-di-Garnier ti porta all’alba il giorno dopo di che ti puoi lamentare? Del fatto che nella line up c’era Kalkbrenner, in effetti sempre più tronfio? Bah. A noi non pare un motivo sufficiente per lamentarsi. Ok: quest’anno forse c’è stata meno ricerca e più celebrazione, quest’anno c’era un mare di gente (121.000: record precedenti letteralmente polverizzati), ma complessivamente quello che abbiamo davanti è un festival in formissima. E un festival non snob. Dove puoi sentire la ricerca così come l’edonismo puro da dancefloor. Dove comunque la costruzione della line up ha sempre un tocco curatoriale avvertibile, e non la corsa bulimica ad affastellare il maggior numero di gruppi, nomoni grossi, nomini hype. Non c’è un cazzo di hype, negli Elektro Guzzi; ma al Sonar suonano di fronte a un migliaio di persone entusiaste. C’è molto hype attorno all’mc mascherato MF Doom e al suo progetto con Jneiro Jarel, JJ Doom; ma se all’inizio la sala è stracolma, dopo dieci minuti appurato che MF Doom è impresentabile dal vivo (ha le movenze di Sara Tommasi, senza la componente pseudo-porno ovviamente) nella stessa sala si è rimasti in cinquanta scarsi. Presi bene, sì. Coglioni, no.