La crisi generalizzata dell’industria discografica è cosa ormai arcinota ed abbondantemente dibattuta, ma c’è un segmento di mercato che ha risentito più degli altri degli sconvolgimenti avvenuti nell’ultima decade: i mix cd, più comunemente conosciuti come “compilation”.
E’ certamente vero che la “musica elettronica” (virgolettato d’obbligo), di qualsiasi sub-genere si parli, è sempre stata, per sua stessa natura, la prima e miglior candidata a salire sul carrozzone della rivoluzione digitale: si pensi ad esempio alle abitudini di creazione e fruizione radicatesi negli ultimi anni all’interno della cosiddetta “club culture” (negozi virtuali quali Beatport, acquisto e ascolto di singole tracce, grande diffusione di software per produzione/djing). Il terreno era più fertile qui che altrove, insomma: la musica “da club” aveva in sé una innata predisposizione al passaggio al formato digitale difficilmente riscontrabile in altre realtà artistico-commerciali. Come sempre esistono le eccezioni: c’è ancora un gran numero di djs che suonano con i vinili e che danno alle stampe veri e propri album, così come c’è ancora una buona fetta di pubblico (in crescita, pare) che preferisce la fisicità dell’oggetto-disco alla release in FLAC, ad esempio.
Una conseguenza di questo liberismo musicale è stata anche la proliferazione di blog tematici e il moltiplicarsi dei relativi podcast, charts e mix commissionati ad ospiti più o meno illustri. Se con un solo click, legalmente e gratuitamente, posso avere sul mio hard-disk tonnellate di gigabyte di musica miscelata dai miei djs preferiti – vedi i podcast di Resident Advisor piuttosto che quelli di Juno, i mixati offerti periodicamente da Allez Allez o Fairtilizer, nonché trasmissioni radio di grande successo qual’è ad esempio Essential Mix di Pete Tong – chi me lo fa fare di acquistare (o anche solo prendermi il tempo di ascoltare) l’ennesimo cd mix?
Le ragioni possono essere le più disparate. Nel caso specifico di questo doppio Balance 016 hanno contribuito in egual misura il nome Agoria e le sue produzioni passate (lo splendido capitolo della serie At The Controls in particolare), il brand Balance, sinonimo di qualità (gli episodi immediatamente precedenti a questo sono stati curati da Joris Voorn e Will Saul) e la tracklist che, oltre ad presentare nomi a me cari (Pom Pom, Bibio e The Field su tutti), mi ha incuriosito per l’eclettismo della selezione e le difficoltà che Sébastien Devaud deve aver incontrato nel tentativo di dare un senso compiuto a tanta varietà.
L’apertura del primo disco esplora territori ambient quasi completamente beatless, diluendo le tracce e dilatando al massimo i tempi. La riuscitissima accoppiata Tosca – Emiliana Torrini (vi avevo detto dell’eterogeneità, no?) conduce al primo vero accenno di cassa, che arriva con Parasite 2 dello stesso Agoria, il tutto a più di 15 minuti dall’inizio: questo dimostra quanto poco il nostro si preoccupi del funzionalismo da dancefloor, e quanto spazio lasci invece al libero dispiegarsi dei pezzi, senza alcun tipo di forzatura dovuta a quella foga che spesso attanaglia chi la gente, alla fine, deve soprattutto farla ballare.
Agoria continua in maniera impeccabile con le atmosfere dark e cinematiche che caratterizzano tutto Aller Retour, raggiungendo il climax nella successione-sovrapposizione della scurissima “10” di Pom Pom e dell’operistica “Altre Voci”, cui fa seguire un live mix di “Over The Ice” di The Field, con tanto di pubblico urlante in sottofondo. Tutto molto bello, fino a quando l’incantesimo viene rotto da una combinazione di scelte che, nel contesto fin qui costruito, suonano del tutto fuori luogo: sto parlando di “Back To My Roots” di Jozif, ma soprattutto – e lo dico da grande fan di Bibio e del suo “Ambivalence Avenue” dell’anno scorso – di “Jealous Of Roses”. E’ bene precisare che nell’ascolto di un’opera come questa quasi mai un giudizio negativo si riferisce alle tracce in sé (ci tengo a ribadire che amo alla follia “Jealous Of Roses”, così come ho amato nella sua interezza il già citato “Ambivalence Avenue”), quanto piuttosto alla loro collocazione all’interno di un racconto sonoro che deve necessariamente avere un capo e una coda. L’effetto di un elemento così forzatamente “altro” è spiazzante, e lo straniamento, invece di rientrare, viene ulteriormente alimentato dalla successiva “45:33” di LCD Soundsystem, creando una sorta di siparietto disco-funky che mal si sposa con quanto sentito fino a quel momento. Se il conducente perde la bussola, il passeggero si ritrova inevitabilmente spaesato. Per fortuna il buon Sébastien torna in fretta sui suoi passi e, quasi a voler rassicurare l’ascoltatore, dà al disco una struttura circolare, facendolo chiudere agli stessi interpreti a cui aveva assegnato il compito di aprirlo, Gregg Kowalsky e Alva Noto.
Il secondo disco è più marcatamente club-oriented, anche se nemmeno qui Agoria si risparmia un coup de théâtre, inserito – come nel primo disco del resto – verso la mezz’ora del mix: questa volta a stordire l’ascoltatore è un pezzo per archi del buon Jonny Greenwood. Il flow è nuovamente interrotto, ma a differenza del primo “scivolone”, se così lo si vuol chiamare, qui – complice forse la bellezza della composizione del chitarrista dei Radiohead – l’elemento di rottura fornisce all’ascoltatore quella sorta di “calma prima della tempesta” già presente nel primo disco sotto forma di lunga introduzione, e di cui si sentiva la mancanza nella cavalcata fino a questo momento senza sosta della seconda parte. Riprendendo la struttura di Aller Retour, Devaud chiude rallentando i ritmi e congedandosi con la stessa traccia d’apertura di Sylvain Chauveau.
Un buon mix cd non è poi così diverso da un buon testo: coesione e coerenza sono importanti. Se la connessione tra i vari elementi è garantita da abilità tecniche ineccepibili, in alcuni momenti è venuta a mancare la continuità, la visione d’insieme, sacrificate forse in nome di una ricerca e di una “progressione” a volte rischiose, che non sempre danno i frutti sperati (nel nostro caso, ad esempio, è andata bene una volta su due). Da apprezzare comunque il coraggio e la visionarietà di Agoria, che si fa qui quasi direttore d’orchestra, più che semplice dj.
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