Mentre scrivo, in strada oltre la mia finestra, ci sono due adolescenti che si baciano appoggiati al muro. Lei è minuta e ben truccata, indossa un giubbotto di jeans smanicato e sulla schiena una toppa dei Clash, pantaloni attillati fucsia e Doc Martins. Lui le regge la testa e le sorride, il cappuccio della felpa nera lascia libero solo un ciuffo di capelli neri. Son lì a darsi dei baci e delle parole dolci. Però sembra una pubblicità, due modellini nemmeno troppo belli. Mi aspetto che ora un fotografo s’intrometta nella cornice e dica loro che “dovreste” provare ad essere più “vetrina”, solo più vetrina.
“Comfort” rispecchia ciò che si sta consumando sul marciapiede davanti alla mia abitazione, è una pubblicità fatta con tutti i crismi, realizzata da qualcuno che è bravo, Maya Jane Coles, ma pur sempre una pubblicità. La venticinquenne anglo-giapponese lavora il suo “vero” debutto come fosse un fai da te: lo autoproduce fondando per l’occasione una sua etichetta, lo compone, lo canta, ci suona tutti gli strumenti da sola e ne disegna anche la copertina. Tutto perfetto, anche perché suona bene e le collaborazioni, alcune da tribuna d’onore (vedi Tricky, Miss Kittin, Kim Ann Foxman), funzionano.
Però.
E’ un disco che vuole essere profondo, ma galleggia in una deep house costruita troppo per il dancefloor; vuole essere dub, però anche r’n’b, vuole far ballare, ma anche con la testa, costringendosi a diventare un lavoro pop camuffato da qualcos’altro. Cosa ti aspettavi? Forse che il ragazzo fuori dalla finestra, voltandosi, riveli una brutta macchia su quella felpa portata con tanta patinata eleganza, oppure che la ragazza “corretta in posa” come un manichino, si sveli in qualche affascinante movimento spontaneo. Mi ripeto, è un buon lavoro, ma è ostentato e come tutte le cose definite tali, finiscono per annoiare. La title track corre bene e sembra farlo sempre più a fondo per poi esplodere senza troppi fronzoli stilistici e tornare alla superficie come un tuffo olimpico visto sottosopra, senza spruzzi. “Burning Bright” mette alla voce Kim Ann Foxman, il ritornello rimane in testa, ma musicalmente è una cosa già sentita da gente che l’ha creata e suonata troppi anni prima. Così anche le collaborazioni con Tricky (“Wait For You”) e Miss Kittin (“Take A Ride”), fatte su misura, come il vestito per il matrimonio.
Il singolo, duettato con la svedese Karin Park, è dark, gotico. E pop. Nota di merito a “Come Home”, l’ultima traccia del disco, quella che, a mio parere, rispecchia ciò che avrebbe dovuto veramente essere l’intento dell’intero album della piccola Coles.