Gli stimoli per partecipare a questa terza edizione dell’Electronic Family (la prima per il sottoscritto), non mancavano di certo: in primis, la location dell’evento – l’Amsterdamse Bos – più che suggestiva per chi, come me, non disdegna ascoltare musica a contatto con la natura, nonché le montagne di belle parole spese dagli amici presenti gli scorsi anni. Sulla carta, è lasciato intendere che si tratterà dell’edizione che porterà a pensare in grande: numero degli stages raddoppiato (da 2 a 4), più di 30 djs in line up, a coprire un vasto ventaglio di stili e sottogeneri, da giovani talenti come Andrew Rayel e Kohmha, a certezze come Markus Schulz e John O’Callaghan e vecchie glorie come i Cosmic Gate, Judge Jules e RAM.
I presupposti per una giornata divertente, insomma, ci sono tutti. Vinto il terno alla lotteria del meteo (caldo e sole splendente per tutto il weekend, macchiato solo da qualche nuvolone grigio sabato mattina, scomparso a metà del pomeriggio), recupero gli amici con cui avevo appuntamento e ci dirigiamo impazienti verso il luogo del festival. Arriviamo con quasi un’ora di ritardo rispetto all’apertura delle porte – complice una triangolazione un po’ macchinosa di treni e navette indicati come il modo più breve per raggiungere il parco – quanto basta per farmi perdere il set di apertura di Solarstone, cosa che non mi è andata giù del tutto. Come da tradizione, faccio un rapido giro degli stage, giusto per ambientarmi: gli allestimenti scenografici sono essenziali, anzi, al di fuori del main stage quasi spartani, il che sorprende positivamente chi come me temeva di imbattersi in caramelloni e funghi giganti in stile Tomorrowland. Mi fermo nella tenda organizzata dal Grotesque, dove sta suonando Beat Service, che mi serve da riscaldamento prima di passare nel main, qualche minuto prima che MarLo lasci la console ad Aly&Fila. Il set di Fadi parte un po’ morbido rispetto al solito (sono pur sempre le tre di pomeriggio), ma poi è un crescendo, neanche troppo graduale, di bpm ed emozioni, culminanti in “We Control the Sunlight”, che due anni dopo essere stata votata ‘tune of the year’ nell’A State of Trance, fa ancora la sua porca figura su un dancefloor. Ci abbracciamo, cantiamo a squarciagola, ringraziamo applaudendo.
Approfitto del cambio di consolle e della trouse dei W&W, per rifocillarmi ed avere qualche minuto di margine prima del set di Max Graham. Quando entro nella tenda dedicata ai 10 anni di attività di Armada Music, infatti, Kohmha sta ancora suonando gli ultimi dischi del suo set, dai quali si intuisce quanto il sound Coldharbour abbia influito sul gusto musicale del giovane colombiano. Mi godo Max dal primo all’ultimo beat, in un set travolgente caratterizzato da groove ossessivi ed ipnotici al confine con la techno (c’è spazio anche per “On/Off” di Cirez D), grossi lead e potenti progressioni di accordi, come quella di “Where You Are”: decisamente uno dei più apprezzati dal sottoscritto in tutta la giornata! Nella successiva ora e mezza rimbalzo tra il mainstage, dove suonano dei noiosi Cosmic Gate, la tenda del Grotesque dove mi godo un pò di buona uplifting da parte del veterano RAM, e lo stage Global Grooves, in cui il set di Ummet Ozcan è sintetizzabile così.
Si fanno le 20, ora di Alex M.O.R.P.H: ottimo set anche il suo, molto più cupo di quanto mi aspettassi, condito anche da un paio di pezzi terzinati di ispirazione psy, piacevolmente incastonati in beats dai ritmi serrati. Per le ore finali, la timetable mi mette davanti ad una scelta ardua: Markus Schulz, Andrew Rayel o John O’Callaghan? Scelgo il primo, che da troppo tempo non vedo dal vivo, e non me ne pento assolutamente: Markus riesce a condensare in due ore il meglio dei suoi lunghissimi set (da 6 a 13 ore, quando ne ha la possibilità), creando un flow e un’empatia incredibile con la gente in pista, tanto che sugli ultimi dischi, i suoi cavalli di battaglia, quelli che aspetti per tutta la sera, saltiamo tutti come cavallette nonostante le oltre 10 ore di danze nelle gambe. Semplicemente fantastico!
I fuochi d’artificio sanciscono la fine di una kermesse che ha dimostrato di sapersela cavare egregiamente anche senza Armin come headliner, e che, edizione dopo edizione, punterà sempre più in alto. I margini di miglioramento ci sono, ma assolutamente colmabili, e a conti fatti direi che il festival è promosso, se non a pieni voti, almeno con una buona media.