Ecco, lui è Datsik. Giovane produttore britannico additato da molti come uno dei nomi da seguire della nuova generazione dubstep, tant’è che da poco se l’è accaparrato la Dim Mak di Steve Aoki. A dir la verità, nel nostro speciale brostep l’avevamo inserito tra i “brutti” della nostra leonesca tripartizione, per via di alcuni fattori (leggi originalità e inventiva) che a nostro parere possono ancora essere migliorati. Però lui resta lo stesso uno dei personaggi più seguiti del suo genere. E sapete che c’è? C’era venuta la pazza idea di intervistarlo. Sì, anche se poco tempo fa l’avevamo affettuosamente bacchettato. Perché, al di là delle considerazioni strettamente musicali, è uno dei personaggi più indicati per affrontare i nodi della questione brostep, per quella sua esplicita attitudine metal (il suo cavallo di battaglia è “Evilution“, fatta insieme a Infected Mushrooms e Jonathan Davis dei Korn), per la sua irriverenza mai nascosta e per alcune sue dichiarazioni d’impatto (è lui ad aver definito il brostep come “il punk-rock dell’elettronica moderna“).
Avevamo il contatto stampa e l’accordo, eh. Era tutto concordato. E, detto tra noi, avevamo preparato un gran bel set di domande accattivanti, che intendevano entrare in dialettica proprio con le considerazioni calde che riguardano il nuovo dubstep: evoluzione del linguaggio, EDM o non-EDM, rapporto tra old e new school, reazioni del pubblico conservatore… insomma, tutto lasciava pensare che non sarebbe stata la solita intervista.
Beh, se le “solite interviste” son quelle in cui uno chiede e l’altro risponde, in effetti qui ci siamo ampiamente distinti. Dall’invio delle domande al primo ritorno son passati quasi due mesi. Poi la sorpresa: a quanto pare c’erano dei problemi con un paio di domande. Ci è voluto qualche settimana ad accorgersene, ma alla fine, con molta fatica, son stati identificati i punti colpevoli. Le domande critiche erano queste:
– Possiamo dire che se non ci fosse stato il brostep (e la parallela deriva “pop” venuta fuori da personaggi come Magnetic Man, Katy B e Joker), il dubstep sarebbe oggi un genere morto?
– Molta gente accusa artisti come te di “aver ucciso il dubstep”. Come hai gestito la cosa in questi anni?
A dir loro, queste domande “potrebbero risultare dure o offensive per l’artista”, e quindi “l’intervista non può avere luogo”. E, aggiungiamo noi, se non riuscite a identificare la parte offensiva di queste domande è solo perché non avete passato gran parte degli ultimi due mesi a rileggerle.
Ora, la prima nostra reazione è stata uguale alla vostra, ossia una grossa risata di pancia. Con un commento a margine del tipo ‘cacchio, non pensavamo che dietro l’autore di “Fully Blown” si nascondesse un ragazzo tanto sensibile’.
Poi ci siamo anche divertiti a fare qualche considerazione su cosa si nasconde dietro questo eccesso di protezionismo che oggi gravita intorno al brostep. Quindi questa tensione presente tra vecchio e nuovo dubstep non è solo una sensazione indotta dai commenti su blog e social network, ma qualcosa di palpabile e reale anche tra gli stessi artisti. Perché a quanto pare non tutti hanno il carattere e l’ironia di un Borgore, per dire, che di aver “rovinato il dubstep” se ne vanta da sempre, sia nelle interviste che nei titoli dei dischi, partecipando con intelligenza al gioco delle parti. E perché questo nu-dubstep è fatto soprattutto di ragazzi giovanissimi, che han trovato il successo sparando drop invece che inventandosi qualche formula che colpisse con astuzia, e magari molti di loro non saprebbero sinceramente cosa dire a chi parla di uccisione di un genere storicamente cerebrale e elitario come il dubstep.
Un banale “ma a me interessano le sensazioni dell’arena EDM, non del club bristoliano riservato a pochi” è già una considerazione robusta che richiede carattere. E in pochi hanno la prestanza mediatica di un Armand Van Helden, che quando l’altra volta s’è sentito chiedere da noi qualcosa del tipo “ma come t’è saltato in mente di fare Barbra Streisand?” ha risposto senza batter ciglio con un cristallino “oh, se senti di dover essere mainstream, è giusto che ti butti”. Chiaro come il sole. Una di quelle risposte che ti fanno innamorare definitivamente del personaggio e che, nello stesso tempo, testimonia capacità di analisi, argomentazione e visione complessiva. Qualità che evidentemente qualcuno ha e qualcun altro no.
Ora, magari Datsik in tutto questo non c’entra nulla, e la colpa in questo caso è tutta di un manager che del suo cliente non ci ha ancora capito nulla. O magari è esattamente l’opposto, e quel manager sapeva benissimo che tali domande, se non gestite con risposte adeguate, potevano mettere in difficoltà l’immagine dell’artista e ha quindi prevenuto il pericolo. La verità però non la sapremo mai, perché stavolta siam stati tanto impertinenti da ferire la sensibilità dell’artista, osando domande diverse dalle solite “come hai iniziato a far musica?” e “che uscite hai in programma?”. È bastato dire “old school” e dall’altra parte c’è stata un’onda anomala di panico e indignazione. Vai a sapere che certi tecnicismi il galateo inglese non li ammette.