Il viaggio in treno che collega King’s Cross Station a Stevenage è più breve del previsto, una sorta di spaccato della campagna inglese che tanto ci piace ammirare ma che malvolentieri accetteremmo come premio di consolazione per un clima tanto variabile. Il vagone è di quelli silenziosi che non ricorda affatto le tratte che i pendolari italiani si sobbarcano ogni giorno per recarsi a lavoro. Il viaggio, poi, non sembra essere di quelli con destinazione un festival di questa natura – che ricordiamo ama proclamarsi “The Uk’s biggest celebration of undeground house & techno” –, sembra piuttosto di essere circondati da assonnati turisti di ritorno dal mare dopo una giornata trascorsa in spiaggia. Cotti.
Qui e lì lattine di birra – niente a che vedere con i travasi a cui assisteremo di lì a poco -, bindi e piume di pavone (chissà poi perché) e diversi sorrisi. L’età media dei ragazzi in viaggio, un po’ per il mezzo scelto, un po’ per la natura del festival, non supera i venticinque anni. Ma si sa, qui tutto questo non conta: a queste latitudini è diverso e i giovani sembrano vivere con maggiore consapevolezza questo tipo di esperienze. Tende da campeggio ce ne sono di ogni formato e colore, di quelle della Quechua che vendono da Decatlon e che si montano prima ancora di toccare terra dopo esser state lanciate. Si sorride e si beve, come detto, mentre si attende il nostro turno per salire sulla navetta che un incrocio tra un neonazista e un hipster si anima a riempire di borse e zaini – la stampa “You rock…we roll” sulla sua casacca è un chiaro avvertimento sulla natura del personaggio.
Nonostante i tentativi, raggiungere l’Eastern Electrics in tempo per il calcio d’inizio si è rivelata un’impresa più ardua del previsto. In fin dei conti però, lo spettacolo che era lì ad attendere i ballerini più impazienti non si è dimostrato, time table alla mano, così allettante da meritare capriole e salti mortali. Raggiungiamo quindi il cuore di Knebworth Park, già mosso dalle basse frequenze che agitano i primi dj set, quanto nel Main Stage sta suonando Deetron. Il set dello svizzero è la tipica selezione che ti aspetteresti in un festival: c’è tutto, e tutto mira la sostanza. Così si passa dal suo remix di “Reverse Skydiving” a “Spastik” senza che la pista si accorga di nulla, come se tutto questo rappresentasse la cosa più normale per un dancefloor. C’è da dire, però, che Deetron sa il fatto suo e le sue due ore sono un piacevole su-e-giù, perfetto per questo tipo di occasioni.
Il menù offerto dal festival e la curiosità di conoscere la location, però, sono troppo forti, così lasciamo Sam Geiser sulle note di Plastikman e ci dirigiamo verso il Substation Stage dove ad aprire le danze c’è Theo Parrish. Il set è un concentrato di house music, funk e disco. “La solita storia”, direte voi, ma l’artista di Washington è come un’enciclopedia del suo genere e vederlo lì per primo è quasi un dispiacere. Così decidiamo di muoverci e, mentre il sole tramonta minacciando un po’ di pioggia, vaghiamo per il festival. Si susseguono così ragazzi in leggins colorati, ragazze uscite di casa in maglietta e mutandine (con il risultato di passare metà del tempo a cercare di coprirsi) e diversi tizi pompati da steroidi in pieno stile Jersey Shore, fino al nostro ritorno dal buon Theo. Ci accorgiamo la presa sul pubblico del suo set è andata via via scemando (un po’ per l’ingresso nel Main Stage di Maya Jane Coles, un po’ per il sopraggiungere della fame) quando l’americano è in procinto di lasciare il posto a Ben UFO. L’inglese, con indosso gli immancabili occhiali da programmatore di Cupertino, dimostra nelle sue due ore che il buzz sempre crescente nei suoi confronti è più che legittimo – con buona pace di chi lo ha portato quest’anno in Italia senza grossi rendiconti in termini di incasso alla porta. Unica pecca? Il laptop, un oggetto che quelli con la sua classe dovrebbero lasciare a casa perché, diciamocelo, il luogo comune del “non conta con cosa suoni, ma che musica proponi” ha un po’ stancato, specie se sei a capo di Hessle Audio.
Dopo averlo promesso a lungo, comincia a piovere sul serio proprio quando sta per iniziare l’attesissimo live dei Moderat. Inteso e profondo, “II” si conferma come una delle notizie più liete di questa estate musicale e il live di presentazione non è da meno. Sascha Ring è in forma smagliante, ha voglia di parlare e ricordare al pubblico che quanto stanno suonando è un lavoro a cui tengono e a cui hanno dedicato tante energie. Poi è la volta di “Bad Kingdom” ed è un tripudio: il buio che fino a quel momento ha avvolto il trio viene spazzato via in un lampo da flash del videoclip che vengono proiettati sullo sfondo, luci blu bagnano il pubblico e la voce di Appart si fonde alla perfezione con quella di Sebastian Szary. Fantastico. I settantacinque minuti del concerto sono un tira e molla di beat dub, bassline ciccione e synth grassi come piacciono ai Modeselektor. Le piccole imperfezioni non contano (è il bello della diretta, dicono), specie se è Sascha ad impugnare la chitarra e a regalarci le ultime emozioni. Sono le 22:15 e nel Main Stage si vedono solo mani al cielo, come se tutto ma proprio tutto fosse finito in quel momento.
Ora che le luci che si stanno spegnendo dietro il trio berlinese, una serie di improbabili incontri ci separa dal Substation Stage dov’è in onda lo show di Dixon, su tutti un ragazzo con la nuova maglia della Fiorentina – o qualcuno è partito dal capoluogo toscano o l’effetto SuperMario Gomez sta facendo proseliti anche qui in Gran Bretagna. Il sound scomposto e ruvido di Ben UFO ha ora lasciato spazio al dreamy 4/4 di quello che è ormai unversalmente considerato uno dei dj house più influenti del pianeta. Il suono del berlinese addolcisce l’atmosfera ai piedi del palco che tocca i suoi massimi livelli di coinvolgimento sulle note del remix di “Shortline” confezionato da Frank Wiedemann. Bello, davvero.
Tra una goccia di pioggia e una lattina di Tuborg, nuova incofessabile amica, facciamo la spola tra il set di Mr. Innervisions e quello dei Soul Bros. Se per il tedesco non possiamo che spendere parole al miele, è diverso il discorso che va fatto per il quartetto americano. Il risultato del loro lavoro è un set piatto e scontato, forse il peggiore tra quelli ascoltati, dove l’unico a riuscire a tirar fuori qualcosa di veramente valido è Eli dei Soul Clap – a lui vanno i complimenti per la salopette e per l’ultimo disco scelto, fico. Tutti troppo presi a fare le feste a Seth Troxler (questa volta vestito)? Tutti troppo interessati a salutarsi vicendevolemente, nemmeno non si vedessero da mesi? Fatto sta che la festa è dietro la consolle, mentre il dancefloor si va svuotando a vantaggio delle altre sale. Robert James, Geddes e Shadow Child stanno ancora rigraziando.
A questo punto le carte in tavola sono mischiate e poco chiare: l’unico stage che tiene botta dall’inizio alla fine della giornata di musica è il Substation. Qui si va avanti a vele spiegate come se ci si trovasse in un club della City: Levon Vincent (autore probabilmente del set più solido ed energico del venerdì), Joy Orbison e Jackmaster fanno e disfano a piacimento. Poi ci sarebbero pure Spencer e Blawan, ma siamo troppo stanchi per resistere e la maledizione che continua a tenerci separati da Jamie Robert si conferma una stronza senza pietà. Le ultime forze, infatti, sono state riservate a Dj Koze, bravo come da aspettative, e a quel Seth Troxler capace di catalizzare l’attenzione di tutti con un virale tra il geniale, lo sfrontato e il paradossale. L’americano fa il suo, come al solito, mentre al resto ci pensano le spalle grosse che s’è costruito dentro e fuori la consolle.
Quando sabato mattina la donna delle pulizie decide di ignorare il cartello “do not disturb” ci rendiamo conto che il festival è pronto per riprendere la sua marcia. Rapidi come solo gli uomini in ritardo prima di una partita di Champions League sanno essere, ci catapultiamo in strada per la (mini) camminata che ci separa dalla location dell’Eastern Electrics. Il cielo, al solito, è lì lì per dichiarare guerra e lo fa senza la decenza di mettersi a tuonare così ci trova impreparati – con le patatine in bocca, ad essere più precisi. In poco meno di un minuto viene giù uno di quegli acquazzoni che ci rimanda con la memoria a Collina e al famoso Perugia – Juventus, così siamo costretti a ripararci al padiglione più vicino: il Main Stage.
Entriamo quando quella volpe di Miguel Campbell è pronto a sganciare “Something Special”; il risultato non c’è nemmeno bisogno che stiamo qui a raccontarvelo. Il nostro interesse, però, è altrove così scegliamo di restare il meno possibile a vantaggio di Ata (bellissima la sua selezione) e Heidi, vera e propria regina del pomeriggio capace di riempire lo Switchyard Stage nonostante il viavai della pioggia e la fastidiosa poltiglia che si è creata al centro della pista. Il suo set è divertente e ruffiano, carico nel groove ma al tempo stesso sempre sorridente. Le ragazze in calosce ringraziano sentitamente, armante come sono di tutto il necessario per un festival estivo: stivaloni e occhiali da sole. Il dancefloor si riempie a dismisura, rendendo complicato l’equilibrio per noi stronzi con le Nike, così decidiamo di muoverci a vantaggio della nostra pulizia. Cazzata: sarà impossibile tornare e ascoltare Guy Gerber e Ellen Allien; lo Switchyard, infatti, è l’unico stage ad essere “sigillato” e quindi ad avere una capienza regolamentata dalla security.
Poco male, la virata ci porta dai Clockwork, autori di un set deciso e solido. Graffiante al punto giusto, la loro musica trascina il dancefloor per tutta la durata dell’esibizione confermando, se mani ce ne fosse ancora bisogno, che da queste parti una bella cassa dritta fa sempre la sua porca figura. A questo punto nello stage principale è il turno di uno degli artisti più attesi del pomeriggio, quel Dyed Soundorom che da queste parti sa farsi apprezzare quando è chiamato in causa nella Room 1 del Fabric. Che dire, il passaggio dalla tech-house di Nick Curly al groove caldo del francese si sente eccome: si torna a “respirare”, si rivedono le mani al cielo e il dancefloor torna a ondeggiare come è solito fare quando è chiamato in causa il resident del Circoloco. Il passo è quello giusto, gli edit pure e la missione è compiuta, nonostante una fastidiosa febbretta.
Dopo esserci concessi un pit stop di un’oretta per un paio di birre e per un mini “Buddha’s bowl” – un piatto indiano a base di riso nero, patate, ananas, curry e svariati altri ingredienti indefinibili che vi consigliamo – torniamo attivi quando sta per iniziare il live degli Hot Natured, punta di diamante del sabato di festa insieme al dj set di Richie Hawtin. Jamie Jones e soci aprono le danze con “Forward Motion”, apriti cielo: il Main Stage, che è gremito ai livelli della sera precedente quando si stavano esibendo i Moderat, esplode. Lo show inizia esattamente col piglio che sarebbe stato richiesto anche al Sonar, ma che evidentemente è venuto a mancare. Ora la gente si diverte veramente. Ci sono ragazze sulle spalle dei fidanzati come si vede durante i concerti di Vasco, questo è vero, però tutto intorno si balla. Il back stage è blindato anche agli amici del quartetto, tutti addetti ai lavori è chiaro, che sembrano gradire tanto quanto il pubblico di fronte alla band. Insomma, al di là del gusto personale, un successo che tocca i suoi massimi quando Anabel Englund intona “Reverse Skydiving”. Assistiamo allo show alle spalle degli Hot Natured all’esterno del tendone e con noi Dyed Soundorom, Craig Richards, Clockwork, Carmine dei Tale Of Us, Guy Gerber e Damian Lazarus. E’ tutto un chiacchierare e parlottare di musica e feste, ovviamente: nuovi dischi, nuove collaborazioni, party più o meno fortunati in giro per Ibiza, una crisi che non ha risparmiato l’estate da ballare e i festival in programma nelle prossime settimane. Gli spunti migliori ce li regalano Guy Gerber, che ci dice di come sia cambiato il suo live a vantaggio di un’immediatezza che prima col tempo era venuta meno (lacrimuccia), e Manfredi Romano, che ci racconta della sua esperienza a Miami (tra locali “champagnoni” che tentano la redenzione undeground a colpi di dollari e il sempre crescente interesse dei giovani statunitensi nei confronti della musica elettronica) e di Vaal, giovane promessa di casa Life And Death su cui si stanno riversando le attenzioni della scena.
Nemmeno il tempo di rendercene conto che, a live concluso da una manciata di minuti, anche il cambio palco è stato completato e Kristian Beyer ha già messo il primo disco. Inevitabilmente, le atmosfere richiamano quanto Dixon ci ha fatto ascoltare la sera precedente (riecco, non a caso, “Gotham” di Ten Walls), ma la grande differenza tra i due set sta nel beat. l’Ame sound è più marcato, deciso e, passateci il termine, menno “proggy”. Rispetto alla sera precedente meno concetto e più mani alzate per quello che verrà ricordato come un’ottima esibizione. A questo punto inizia il vagabondaggio in giro per il festival: Tommy Four Seven, Chris Liebing, Luke Slater (come Planetary Assoult System) e Surgeon devastano un suggestivo ma invivibile Igloovision Stage; Anja Schneider e Ellen Allien rimpolpano, se mai ce ne fosse bisogno, uno Switchyard che non è mai calato per intensità; Tale Of Us e Matthias Tanzamann continuano l’opera iniziata da Ame e aprono la strada ad un attesissimo Richie Hawtin che propone l’ormai classico “tunz tunz” che va in onda da mesi. Il Main Stage festeggia compiaciuto, ovviamente.
Sarebbe potuta essere semplicemente la giornata conclusiva del festival se non ci fossi imbattuti, verso le quattro del pomeriggio, in Tama Sumo e nel suo immenso gusto e inconfondibile talento. Sì perché le premesse di questo ultimo giorno di festival non deponevano a favore dei più audaci frequentatori del dancefloor: Richy Ahmed ha confermato il nostro sentore che lo targava come dj tutto sommato trascurabile; lo Switchyard Stage, addobbato per l’occasione a Secretsundaze party, ha faticato a vivere le vibrazioni tipiche delle feste nei warehouse londinesi; mentre Tini non faceva altro che somministrare con scientifica e ingegneristica precisione il suo beat quadrato, senza sbavature ma senza mai osare il colpo da vero fuoriclasse. Niente di che, insomma.
Proprio la riccioluta biondina di casa Desolat fornisce il migliore spunto per analizzare il set immenso della berlinese Tama Sumo: se da un lato, infatti, troviamo un’artista capace di ottenere i medesimi risultati da qualsiasi tipo di dancefloor – dieci, cento, mille, il set non cambia mai -, di contro Kerstin Egert riesce a tirar fuori dalla sua borsa di dischi molto più di quanto sia comunque lecito aspettarsi da un dj del suo peso. Le sue due ore sono un susseguirsi di emozioni fatte di caldi bassi funk, groove sexy, trombe e cut di voce, il tutto preparato e condito secondo i più rigorosi dettami della scuola berlinese, di cui è docente esperto sin da quanto il sole ha iniziato a battere su Friedrichshain. Non ce ne vogliano un MK sempre di grande impatto sulla pista e nemmeno un Raresh su cui riversavamo grandissime aspettative ma che in fin dei conti non è riuscito a cambiare le sorti di uno stage, l’Electric City, che ha pagato l’ispiratissima vena di Tama Sumo e Prosumer. Terrà botta, a partire dalle 18, solo il Main Stage con Kerri Chandler.
Giusto il tempo di un hot dog in formato maxi che siamo nuovamente in giro tra gli stage. Assaggiamo le selezioni di Laura Jones (finalmente dalle parti di Electric City si torna a fare baldoria come si usa da queste parti), Gerd e Skream, che sforna un “disco set” di tutto rispetto. Oliver Dene Jones, in buona sostanza, placca la nostra corsa verso il Main Stage dove avremmo voluto sbirciare l’esibizione dei Masters At Work. Ma chi avrebbe resistito a “Music Sounds Better With You”?
Testo a cura di Matteo Cavicchia e Stefano Testa