Sono tempi abbastanza bui per il mercato musicale, lo sappiamo e non da oggi. La rete ha portato cambiamenti epocali tra i formati, la distribuzione e la commercializzazione della musica (o non commercializzazione, che sarebbe più corretto), oltre a porre problematiche tutte nuove in merito al diritto di autore, al download illegale, allo streaming.
Le grandi etichette discografiche si sono mosse con estremo ritardo e ottusità (come ogni multinazionale) quando i buoi erano già tutti scappati, ritrovandosi a fare una guerra persa in partenza (perché iniziata troppo tardi e con mezzi forse sbagliati) a utenti, provider e siti di condivisione. Le piccole invece, non avendo il benché minimo strumento di tutela, si sono ritrovate (e si ritrovano) in balia degli eventi, totalmente indifese in un territorio vasto, sconfinato e tendenzialmente anarchico.
In questo quadro riassuntivo, l’ingegno umano ha provato a dare nuove risposte ai problemi di un mercato totalmente cambiato: le licenze Creative Commons sul diritto di autore online, Soundcloud e Bandcamp soprattutto per artisti ed etichette indipendenti.
Poi sono arrivati i servizi di streaming freemium, in cui gli artisti vengono remunerati per ogni stream di un loro titolo, con gli incassi che arrivano dalla pubblicità per gli utenti free e dagli abbonamenti per i premium. In questo modello si è fatto largo Spotify, considerato come il modello di business futuro per musicisti e produttori, non senza polemiche, defezioni e critiche, ma con un’apparente successo che sembra accontentare azionisti e utenti. Obtorto collo di tanti artisti, che ricevono percentuali irrisorie, sembrerebbe l’unico modello perseguibile in questo momento.
Ho scritto “sembrerebbe” non a caso perché i conti 2012 di Spotify mostrano dei trend preoccupanti, leggibili anche per chi è inesperto di finanza e bilanci (come il sottoscritto, che fa altro nella vita). Come riportato da Digital Music News, Spotify ha aumentato le proprie entrate fino a 573 milioni di dollari nel 2012, oltre ai 6 milioni di abbonati. Il problema è che sono aumentati anche i costi per le licenze (oltre i 450 milioni di dollari) e l’indebitamento ha raggiunto i 206 milioni di dollari. Ciò, in parole molto povere, significa che Spotify rischia di rimanere senza soldi in cassa a breve.
Da Spotify preferiscono vedere le cose in positivo visto che comunque gli utenti abbonati stanno aumentando (con circa 1/5 degli utenti free che è passato all’abbonamento, percentuale molto alta) e l’azienda sta aumentando la propria penetrazione del mercato internazionale, espandendosi anche in altri paesi (Italia compresa, nel 2013). Il futuro prossimo però potrebbe addensarsi di nubi nerissime, soprattutto se il numero di abbonati non dovesse crescere sensibilmente, oltre alla raccolta pubblicitaria (il primo è un concetto difficile da portare al successo on line, mentre la seconda rischia di risentire della crisi, soprattutto in Europa).
Di seguito potete farvi un’idea più chiara guardando le slide (riprese da Digital Music News) sui trend 2010-2012 riguardanti entrate, abbonati, costi di licenza e perdite di Spotify.