Rrose Selavy era il nome con cui Marcel Duchamp, alle soglie del XX secolo, amava farsi chiamare quando si vestiva da donna. Sì lo so, i tanti appassionati ed esperti d’arte tra i lettori di Soundwall storceranno sicuramente il naso di fronte alla definizione così semplicistica di uno pseudonimo, gioco di parole, che lascia intravedere la sagacia e l’ironia del padre del Dadaismo, intenzionato a rompere a rompere gli schemi del suo tempo con un cambio radicale, un atto forte, come il cambio del sesso attraverso il “gioco” del travestimento. Ma non è della Rrose Duchampiana che vogliamo parlare qui, la Rrose che qui c’interessa fa techno, è americano e anche lui, in onore al padre del Dadaismo e a quella voglia di rompere gli schemi, quando espone la sua arte nei club di mezzo mondo, ama travestirsi da donna – si, credo sia proprio il caso di proseguire allora la recensione usando il genere femminile.
Anno 2011. Rrose è amica personale di Silent Servant, altro americano veterano della scena techno internazionale. Preso coraggio, Rrose decide di mandare alcuni materiali al suo amico così, senza impegno, solo per avere un feedback. E’ un fulmine a ciel sereno: Juan Mendez rimane sorpreso dalla qualità dei materiali di Rrose, non ci pensa due volte e gira tutto ai Sandwell District, che poco tempo dopo ne ricavano un EP, “Motormouth Variations”, la cui uscita non solo è un successo, ma sancisce a tutti gli effetti il ritorno alla scena della nostra Rrose, disconnessa per diversi anni dal mondo della musica techno. Continuando a mantenere un prolifico rapporto con David Sumner e Karl O’Connor, veri pionieri del genere (vi dicono nulla i nomi Function e Regis?!), la nostra Rrose decide di aprire una label, Eaux, che è la quintessenza dell’estetica Rrosiana, capace di colmare il gap tra la techno aggressiva dei suoi mentori Sandwell District e l’elettronica sperimentale attraverso l’analisi meticolosa ed ossessiva dei moduli sonori.
Anno 2013. Dopo due anni di ricerca e studio, Rrose debutta sulla Stroboscopic Artefacts di Lucy passando per Monad, release series incentrata sulla sperimentazione sonora che ha visto uscire dalla propria fucina il duo irlandese Lakker ed il collettivo italiano Plaster. “Monad XVI”, questo il nome dell’uscita, si basa quasi completamente su un estetica non-dance che mira all’empatia dell’ascoltatore, cercata in modo ossessivo attraverso il loop e l’ipo/iperventilazione acustica, coinvolgendolo in un saliscendi costante, quasi cadenzato.
Apre “Onceless”, un digeridoo distorto suonato in una stanza che, inizialmente immensa, sembra stringersi ogni secondo di più. In cinquecentoquaranta secondi il digeridoo si trasforma nel ronzio di un elicottero, violento ed incessante nella sua crescita, dal quale emerge lentamente una drum meccanicamente tribale che, lentamente, sale portando l’assordante andamento acustico verso una lieta conclusione. “The Stare” sembra andare in direzione opposta rispetto alla traccia d’apertura. Il pessimismo cupo e latente di “Onceless”, infatti, qui sembra non essere minimamente presente, anzi: una splendida bassdrum sembra spianare una via verso un folgore troppo bello per essere vero. Appunto, troppo bello per essere vero: la splendida bassdrum si trasforma in un maledetto nastro trasportatore che ci porta dritti dritti verso una sorta di frullio ripetitivo che prima va soffocando la sezione ritmica per poi riesplodere violentemente in tutto il suo paranoico sviluppo. Timeo Danaos dona ferentes.
Capisci che ogni possibilità di redenzione è da considerarsi vana nel momento stesso in cui, da un bellissimo fade in filtrato, emerge “Kneeling”, terza traccia nonché fulcro centrale della ricerca Rrosiana. La totale assenza di sezione ritmica va a tutto vantaggio dello sviluppo della sezione acustica, freneticamente basculante tra momenti di calma apparente e attimi di puro delirio sonoro nei quali filtri ed echoes, LFO e gate meccanicamente aprono e chiudono a loro piacimento diaframmi oltre che il modulo sonoro principale, fino alla placida conclusione. Sette minuti sette in cui lo stile di Rrose vive il momento di massimo splendore ed esemplificazione. Chiude il percorso di “Monad XVI” “Wet Silk Will”, quarta traccia che, a modo suo, può essere considerata una sorta di “umanizzazione” di “Kneeling”: stesso tema portante ma sviluppo meccanicamente più ordinato, vincolato essenzialmente ad una drum part discretamente ricca e ad un saliscendi nella bassline che, in coppia, danno l’impressione di essere di fronte ad un recupero quasi vintage di Plastikman.
I fan di Rrose e del genere non potranno non amare questo EP, chi non la conoscesse può affrontarlo con la coscienza di avere tra le mani forse il manifesto più chiaro ed umanamente intellegibile dell’artista techno americana. Una cosa mi lascia perplesso: in un mondo, il nostro, lontano anni luce da quello dei primi del Novecento e della Rrose Duchampiana, dove l’innovazione artistica stava nel “recupero delle idee” e la morale vittoriana imperante rappresentava artisticamente il Male da sconfiggere con atti eclatanti come il fingersi donna, ha senso veicolare il talento ad un immaginario teoricamente forte ma, all’atto pratico, non più così sconvolgente? Ai posteri l’ardua sentenza.