L’avevamo incontrato più volte, negli anni, e dopo il successo folle di “Play” (chissà quanti milioni di copie vendute, pare una decina, per un album che nei sogni più rosei doveva venderne al massimo 30.000) ci era sempre sembrato un po’ scostante, un po’ diffidente e sospettoso nei confronti del mondo, un po’ spaventato e quindi un po’ aggressivo e paranoico. Nulla di che, l’educazione è sempre stata impeccabile, ma ecco – a frequentare molto gli artisti, dopo un po’ sviluppi una specie di sesto senso su queste cose. Il Moby con cui scambiamo una lunghissima e distesa chiacchierata prima dell’uscita del suo nuovo lavoro, “Innocents” (tra l’altro sorprendentemente buono), è invece completamente diverso. Ma proprio alcune delle risposte che ci dà ci fanno sospettare che, forse, c’avevamo visto giusto. Oggi il successo pazzesco e certo star system sono alle spalle. Ma parliamo pur sempre di un uomo con molte cose viste, molte cose vissute, ma anche molte cose da dire. In un mondo in cui troppo spesso si diventa delle mezze star sull’onda di soli tre, quattro EP, parole ed esperienze come le sue diventano preziose. Molto preziose.
Sai, ho avuto l’impressione che forse la prima volta sei sceso a patti col successo di “Play”. Per la prima volta ti sento fare musica che è serenamente simile a quel disco-monumento, senza l’ansia di differenziarsene troppo. Sbaglio?
Guarda… Il punto è che quando creo musica, seguo un criterio molto semplice: cerco di fare una musica che io possa amare. Che mi smuova emozionalmente. Non mi pongo assolutamente il problema prima di iniziare a lavorare di quale suono debba avere, a quali generi si debba riferire… cerco solo qualcosa che mi emozioni. Punto. “Innocents” è venuto fuori così. Nulla di strano quindi che sia capitato fuori un disco magari simile in alcune parti a quanto fatto in passato; anche se, credimi, non era questa l’intenzione.
Onestamente, quanto tempo c’hai messo a “liberarti” dal successo pazzesco ed imprevisto di “Play”?
La cosa più divertente del successo di “Play” è che era… divertente. Lo dico tranquillamente: me la sono spassata parecchio, ad averlo. Io sono cresciuto suonando in piccoli gruppi punk rock: non pensavo che avrei avuto successo, non pensavo che sarei arrivato ad avere un contratto discografico, zero proprio. Tutto quello che poi è arrivato, è arrivato completamente a sorpresa. L’esplosione di “Play” mi ha colto completamente impreparato ma, e mi vergogno quasi a dirlo, di sicuro mi ha permesso di spassarmela molto. Perché sai, se hai successo succede che vai ai party più belli, conosci un sacco di cose interessanti, esci con molta gente intrigante… Tutto molto figo. Tutto molto seducente. Rinunciare progressivamente a tutto questo non è stato semplice, direi una bugia a sostenere il contrario.
Ecco, appunto: questo “successo” può diventare velenoso? Se ad un certo punto hai voluto sfilartene…
Allora. Prendi i musicisti che sono diventati delle figure pubbliche riconosciute, delle vere icone: ti sembra che abbiano beneficiato della loro fama? E’ più una storia di gente che va in depressione, diventa tossicodipendente, va via di testa, muore giovane… Quindi sì, fatti alla mano qualcosa di velenoso ci deve essere per forza. E sta a te, solo a te, capire cosa fare per evitare di fare la fine di un Kurt Cobain o di un Layne Staley, gente che ci ha lasciato la pelle, tanto per citare delle figure che io da giovane sentivo molto vicino, appassionato di punk rock com’ero.
E tu quindi che hai fatto, per difenderti da questo “successo”?
Inizialmente nulla. Anzi. Te lo dicevo prima: era tutto molto divertente! Molto! Ho bevuto tanto. Mi sono drogato un sacco. E’ stato molto divertente farlo, sì, il problema è che stavo danneggiando irrimediabilmente il mio corpo. Ecco, quella è la consapevolezza che ti può salvare: la consapevolezza che quello che stai facendo ti sta facendo del male, ma del male davvero fisicamente. Prendi le persone che mangiano troppo – non riuscirai mai a convincerle di smettere di mangiare facendogli credere che nutrirsi non sia un godimento, mai, l’unica è che si rendano conto che il loro corpo ad un certo punto non riesce a sostenere certe abitudini nutrizionali e sta per cedere. Io non ho smesso di bere e di drogarmi perché ad un certo punto non mi piaceva più farlo, ma perché mi sono reso conto che cominciavo a farmi davvero molto male. Ho comunque amici che continuano ad avere una vita molto brillante: buon per loro. Vivono ancora in modo sregolato, ma riescono a stare bene fisicamente… fantastico! Io, semplicemente, non ci riesco.
Per lunghi anni sei stato una strana eccezione: un producer di musica elettronica che arriva dagli Stati Uniti (e senza arrivare dai canonici luoghi e dalle canoniche scene tipo Chicago o Detroit), lì dove la stragrande maggioranza dei tuoi colleghi era invece europea, in primis tedesca o inglese. Così come era inglese la tua etichetta, la Mute.
In America, con la musica elettronica, è tutto in effetti strano. Procede a cicli imprevedibili. Ad un certo punto, parliamo di circa sette, otto anni fa, mi sembrava evidente che il fenomeno dei rave si fosse ritratto bruscamente dalle nostre parti, la musica elettronica pareva solo un affare di cerchie assai underground, dai numeri molto piccoli. Insomma, quando mi arrivavano gli inviti per suonare ad “eventi di musica elettronica” americani mi immaginavo sempre di capitare nelle solite situazioni quasi carbonare… finché un giorno è arrivato questo invito per ‘sto Electric Daisy Carnival – beh, lì mi sono trovato a suonare davanti a 75.000 persone. E’ cambiato tutto davanti al mio naso, e non me ne sono accorto. Come diavolo è stato possibile? Ed è una cosa affascinante, come fenomeno, ‘sta roba che adesso si fa chiamare EDM. Immagino nasca tutto dalla diffusione dei laptop. Negli anni ’80 e ’90, se volevi fare musica elettronica, avevi bisogno di macchine particolari, grosse e costose; e se volevi che questa tua musica circolasse, dovevi avere dalla tua un investimento molto forte in stampa dei vinili e distribuzione. Qualcosa di complicato e alla portata di pochi, insomma. Guarda oggi, invece: chiunque abbia un laptop e un paio di software può non solo fare musica ma farla sentire a tutto il mondo. Democratico, bello anche, il punto è che questo significa che c’è molta più musica in giro ed è molto più facile diffonderla. La musica elettronica si porta dietro oggi questa caratteristica. Poi ovvio, se vai pure a uno degli eventi principali ti trovi davanti a produzioni pazzesche. E anche il più distratto dei teenager, se lo metti in un campo con 15.000 persone entusiaste, figurati se non lo conquisti subito. Dev’essere andata così.
Però noi, noiosi segaioli giornalisti musicali, storciamo parecchio il naso di fronte all’EDM. Siamo in torto noi?
Beh. Penso che molta di questa musica sia terribile. Ad esempio, ecco un buon criterio che mi fa capire subito che è una cosa che non mi piace: quando sento dei remix elettronici di canzoni della Top 40. Che fastidio! Ok, non vorrei essere noioso, ipercritico, ma ogni volta che sento una versione dance dei pezzi di Rihanna… argh… Ma io ho quarantasette anni. Mah. Probabilmente non sono l’audience giusta per quel tipo di musica.
Ecco, sì, già che sei quarantasettenne e quindi ormai ne hai viste di ogni: qual è il tuo rapporto coi media oggi, quelli che bene o male influenzano i gusti in giro?
E’ un rapporto molto interessante. Ci sono stati periodi della mia carriera in cui i giornalisti mi amavano a prescindere, altri in cui succedeva l’esatto contrario. Ci sono nazioni dove la stampa ha sempre parlato bene di me, almeno in determinati periodi, ed altre in cui invece proprio non mi hanno mai potuto sopportare. Però dobbiamo tutti ricordarci di una cosa molto simpatica: giornalisti e musicisti, che lo vogliano o no, sono tutti sulla stessa barca, la barca dell’industria musicale in senso lato. Una barca che non sta navigando troppo tranquillamente, no? Ci piaccia o meno, siamo legati gli uni agli altri. Teniamone conto.
Quindi dovremmo smetterla di combatterci fra noi?
Non so. So solo che io musicista dovrei ricordarmi più spesso che anche il giornalista è un essere umano. Esattamente come io ogni tanto mi sveglio male e vorrei per tutto il tempo mandare affanculo chiunque e qualunque cosa, può succedere lo stesso al giornalista – che però magari proprio in quel giorno deve recensire il mio disco. Ti posso dire che in passato, quando ho letto brutte recensioni, effettivamente mi arrabbiavo parecchio… Però ora queste brutte recensioni non me le ricordo più, vedi un po’. Tanto ti fanno arrabbiare lì per lì, tanto presto le dimentichi.
Ti è mai capitato di leggere qualche critica rivolta al tuo lavoro che, col senno di poi, si è rivelata utile?
Mmmh, sì dai. Ad esempio, nel 2005 avevo fatto uscire “Hotel”: un album che ha avuto decisamente un buon successo, con un paio di hit radiofoniche notevoli. Venne recensito malissimo, però. In effetti è l’unico album che mi sono ritrovato a fare in uno studio di registrazione con tutti i lussi, con una grande produzione dietro offertami dalla label. Era tutto professionale al massimo grado. Ma quindi anche asettico, laccato. Riascoltandolo, più tardi, mi sono reso conto che questa era una cosa che non mi piaceva per niente, non mi ci ritrovavo, non lo apprezzavo. Le recensioni negative legate a quel disco furono le prime a mettermi in guardia, se ci penso, prima ancora che io capissi dove stava il problema. Le ho rivalutate parecchio, ripensandoci.
Cosa ci puoi dire dei tuoi rapporti con l’Italia?
Oh, un bel po’ di cose. A partire dalla primissima volta in cui ho suonato da voi: una venue da ottocento persone e qualcosa come dieci paganti…
Dieci?
Dieci.
E?
E, ho fatto il concerto. E’ stato pure interessante, dai! Ovvio che successivamente le cose sono un po’ migliorate… anche se non sono mai mancati momenti abbastanza pittoreschi, tipo quella volta in cui aprivo il tour dei Red Hot Chili Peppers e mi ritrovai con Flea ad arrampicarmi sugli amplificatori, diventando entrambi un obiettivo perfetto per lancio di oggetti da parte del pubblico, che non si era certo tirato indietro! Comunque guarda, giuro che non lo dico perché sto parlando con te che mi stai chiamando dall’Italia, ma io da voi ho suonato molte volte e mi sono sempre trovato bene, perché vi amo come cultura, vi amo come gente, amo il modo in cui vivete la musica. Siete un posto bellissimo.
Con un sistema politico abbastanza immondo, però. Singolare contraddizione.
Non vivendo da voi, non mi sento in diritto di giudicare con troppa decisione il vostro sistema politico. Che poi senti, i casini e pure grossi li fa pure il sistema politico americano, fidati. Anche se devo ammettere che nessuno come voi riesce ad aggiungere una componente di farsesca teatralità: sai, per molti americani della mia generazione l’introduzione al sistema politico italiano sono stati i servizi sulla pornostar che entrava in Parlamento. Cicciolina, giusto? Ecco!
Torniamo alla musica prima che mi salga lo sconforto, ti prego. Quanto tempo hai impiegato per completare “Innocents”?
Un anno circa. Devi sapere che quando lavoro ad un album, butto già una quantità enorme di tracce.
Enorme quanto?
Facciamo trecento.
Maledizione, enorme davvero.
E’ da queste trecento canzoni circa che arrivo poi a scegliere le quindici che vale davvero la pena sviluppare e far finire sul disco. In più, questa volta sono state in ballo anche molte collaborazioni: quindi non c’era solo il mio personale lavoro di sviluppo e rifinitura delle tracce, ma anche il lavoro degli ospiti esterni – ognuno coi propri modi e i propri tempi. Ho cercato fortemente di collaborare con voci che mi potessero ispirare: da grande appassionato di Mark Lanegan fin dai suoi tempi con gli Screming Trees, volevo assolutamente che lui ci fosse, tanto più che col tempo la sua voce è diventata ancora più particolare ed intensa. Un’altra collaborazione significativa è quella con Wayne Coyne dei Flaming Lips: io e Wayne ci conosciamo da quasi vent’anni, da quel famoso tour coi Red Hot Chili Peppers, e quando ho riascoltato i provini di “The Perfect Life” mi sono reso conto che sembrava sotto molti punti di vista una canzone dei Flaming Lips, come tipo di scrittura. E quindi ho chiamato Wayne. Con lui, come con Mark e tutti gli altri ospiti, il procedimento è stato sempre lo stesso: la collaborazione a distanza. Io mandavo le tracce a loro, loro me le restituivano con la loro parte vocale incisa sopra. Ruoli divisi e definiti: io pensavo alla musica, loro ai testi e alle parti vocali.
In effetti mi sembri uno abbastanza geloso del proprio lavoro: è raro vederti collaborare come producer.
Per quanto riguarda le collaborazioni di “Innocents”, la grande fortuna nasce dal fatto che io e gli amici che hanno cantato per me sanno che sono un uomo di quarantesette anni che preferisce ancora adesso dedicarsi ad album più che a hit singole – uno fuori dal tempo, insomma. Quindi, tutti sapevamo che ci trovavamo a lavorare insieme ad un progetto che non aveva e non ha probabilmente nessuna chance di successo commerciale reale. Non abbiamo perso tempo su cose tipo “Ma questa parte quanto sarà radiofonica? Le radio la suoneranno? Venderà?”. Un gran sollievo, per me e per loro.
Però ecco, tornerei sulla tua gelosia lavorativa: lavorare con cantanti che pensano alle tracce vocali sì, lavorare a quattro mani con producer sulla parte musicale insomma.
Oddio, ho collaborato con un po’ di dj su brani dance, proprio recentemente ho fatto una traccia con The Loops Of Fury… ma la tua domanda è buona. Mi stai facendo venire il sospetto che forse, effettivamente, potrei e dovrei fare qualche collaborazione in più. Hmmm.
Olé: parti subito con la lista dei desideri allora!
Mi vengono in mente band e artisti che hanno fatto lavori molto interessanti reinterpretando e remixando brani miei. Ti citerei così al volo gli Alt-J, bravissimi; David Lynch, che ha fatto un lavoro notevole mettendo mano alla mia musica; o gli Yeasayer, davvero freschi.
Un’altra cosa che non fai, e che gli artisti di successo ad un certo punto fanno spesso, è aprire una tua etichetta discografica.
La risposta è la stessa che spiega il motivo per cui non farò molti concerti in giro per promuovere “Innocents”: preferisco sempre più stare a casa e fare cose creative lì – comporre musica, dedicarmi alla fotografia, scrivere… Tutto qua. Ho capito che la vita è corta e, visto che posso, provo a spendere il più tempo possibile facendo cose che mi piacciono e che trovo creative. Aprire una etichetta, con tutta la burocrazia che ci può stare dietro, non credo sia fra questi.
E insegnare trucchi del mestiere a qualche collega molto giovane? Fare un po’ da padrino artistico? Non ti viene la tentazione?
No, no, no: mi sa tanto che sono io che dovrei imparare da loro, credimi. Il mio modo di lavorare è veramente vecchia scuola, sia come modus operandi che come strumentazione. Sono all’antica, io. Uso ancora le tape machine, ti rendi conto? O vecchie tastiere comprate su e-Bay.
Qual è la differenza tra l’essere fuori moda e l’essere al di fuori delle mode?
Non lo so… ma la domanda è veramente ottima. Ti posso solo dire che il mio unico criterio è fare musica che io possa trovare amabile, emozionante: che per farla ci vogliano Ableton o Reason oppure una chitarra acustica e un microfono, cambia poco. E’ indifferente. Conta solo l’emozione che provoca in me quando la ascolto le prime volte in studio.
Ma credi che prima o poi ti verrà voglia di tornare alle tue radici punk, che erano abbastanza selvagge?
Ancora adesso ascolto molto punk rock! E coi Vatican Commandoes, la mia band punk di quando stavo al liceo, abbiamo fatto una reunion un paio d’anni fa. Ci siamo divertiti tantissimo! Ci ricordavamo, più o meno, ancora tutti i pezzi! Ma il cantante, che era un folle con la cresta blu, oggi è uno stimato neurochirurgo addirittura fondatore e proprietario di una clinica privata. Il bassista invece, che era un tizio pericoloso ed ingovernabile, oggi vive con moglie e figli in una fattoria nel New Mexico. Per dirti. Però ecco, è stato bello: suonare di nuovo le robe nostre, o le cover di Damned o Minor Threat…
Dimmi che almeno per un attimo vi è venuto il flash “Oddio che ci facciamo qua…”!
No: perché eravamo consapevoli di quello che eravamo. Dei tizi di mezza età. Nessuno di noi ha creduto di poter essere un ragazzino di nuovo. Nessuno. Nemmeno io.
English Version:
We had met him several times over the past few years, and after the great success of “Play” (who knows how many millions of copies have been sold, it seems like a dozen, for an album that, to think positively, had to sell up to 30,000) he always looked a little bit ‘stiff, a little’ wary and suspicious about the world, a little bit scared and therefore a little bit aggressive and paranoid. None of that, his way of acting has always been impeccable. After a while of being among a lots of artists you get a kind of “sixth sense “ about this kind of things. The Moby we had a long and easy chat with, just before the release of his new work, “Innocents” (surprisingly good), is instead completely different. But some of his answers made us realize that maybe, we were right. Today, the success and some crazy star system is just a memory. Still we’re talking about a man who saw so many things, experienced different lives, with a lot of things to say. In this world, where people get half-famous with just three or four EPs, his words and experiences become valuable. Extremely valuable.
You know, I got the impression this is the first time you come to terms with the success of “Play”. For the first time I see you making music that is similar to that disk-monument, without that anxiety of being different. Am I wrong?
Look… The point is that when I make my music, I follow just one simple rule: I try to make music that I can love, a sound that gives me emotions. I don’t care about working on what sound should my music have, or what my music is supposed to be in contact with… I just try to find something that really thrills me. That’s all. “Innocents” came out by following this rule. No surprise then that this album is maybe similar to what I have done in the past, even though, believe me, this was not my intention.
Honestly, how long did it take you to “get rid” of the crazy and unexpected success of “Play”?
The funniest thing about the success of “Play” is that it was… funny. Frankly speaking, I had a great time. I grew up by playing in small punk rock groups: I didn’t think I would have had that success, I never thought I would come up with a record deal, not at all. All that happened since that was completely unexpected. The explosion of “Play” caught me completely off and I am almost ashamed to admit it. You know, if you are famous you go to the coolest party, you know a lot of interesting things, get in touch with a lot of cool people… All very cool. All very fascinating and givin’ up all this has not been easy at all, I wouldn’t be fair to say the opposite.
You think that this success can become a sort of “poison” as you wanted to get rid of it?
Well, look at all the musicians who have become very popular, really true icons: you think they got any kind of benefit from their fame? It’s more like a story of people who get depressed, become addicted, go out of their mind, die young… So yes, at the end of the day there must be something poisonous for sure. I mean it’s up to you, only you, to understand what to do not to go along the same way of a Kurt Cobain or Layne Staley, just to mention people I felt myself very close with when I was young and loved punk rock.
So, what did you to in order to protect yourself from all this?
Nothing at first. Indeed, As I told you before, it was all cool and funny! A lot! I drank so much. I used a lot of drugs. Yes it was great, the only problem is that I was irreparably damaging my body. You see, here is one thing that can save you: the counsciousness that what you’re doing is hurting you, physically. Look at the people who eat too much – you’ll never get to convince them to stop eating by telling them that feeding isn’t really a pleasure, never, the only solution for them is to realize that their body will collapse at some point, as it can stands certain nutritional habits. I have not stopped drinking and taking drugs just because I didn’t like it anymore, but because I realized that I was hurting myself. However I have friends who continue to have a very bright life: good for them. They still live in an unregulated manner, but they are good… fantastic! I just can’t do it.
For many years you have been an exception: a producer of electronic music from the States (and not from canonical places like Chicago or Detroit), while the vast majority of your colleagues is European, primarily German or English as well as your English label, Mute.
In America, everything surrounding electronic music, is indeed weird, looks like an unpredictable cycle. About seven, eight years ago, it seemed pretty clear that the phenomenon of rave was backing to our parts, electronic music seemed more like a matter for exclusive underground circles, small numbers. When I was invited to play at some “electronic music event” in America, I always imagined to be put into an “elitist contest”… until one day I was invited to the “Electric Daisy Carnival” – well, there I found myself playing in front of 75,000 people, everything has been changing in front of my eyes, and I have not noticed. How the hell was this possible? And it is a fascinating thing, that stuff that now goes by the name of EDM. I guess everything started with laptops. In the ’80s and ’90s, if you wanted to make electronic music, you needed special machines, very big and expensive, and if you wanted your music to be spread around, you had to afford large investments for printing and distribution of vinyl. Something complicated and just for few. Look it now, anyone with a laptop and a couple of software can not only make music, but also spread it around all over the world. Democratic you say, but the point is that there is much more music out there and it is much more difficult to spread it. The electronic music of today has this feature. Needless to say that if you go to one of the main events you got in front of you crazy productions and if you put a teenager in a field among 15,000 of enthusiastic people, you got him. It must have happened like that.
But we, music journalists, we don’t go pretty good along with EDM. Are we wrong?
Well. I think a lot of this music is terrible. For example, here is an other thing that makes me realize that there’s something I don’t like when I hear electronic remix from the Top 40. What a nuisance! Ok, I would not be boring, overly critical, but every time I hear a dance version of spare Rihanna… argh… But I’m forty-seven. Mah probably I’m not the the right target for that kind of music.
Well, yes, since you’re forty-seven and you have seen it all: what is your relationship with the media today, the ones that spread good or bad influence around?
It’s a very interesting relationship. There have been times in my career where journalists loved me regardless everything, some others in which it happened the exact opposite. There are countries where the press has always said good things about me, at least some times, and some others where I have never been able to bear it. But we must all remember one thing: journalists and musicians, whether they like it or not, are all in the same boat, the boat of music industry. A boat that is not sailing too quietly nowdays, no? Whether we like it or not, we are all bound to each other. Remember this!
So should we stop fighting against each other?
I do not know. I just know that, as a musician, I should see the journalist as a human being. Just like everyone, sometimes I wake up in a bad mood and I’d like to say to anyone and anything that they should go fuck themselves, it could happen to the journalist as well – but maybe on that day he gotta review my record. I can tell you that in the past, when I read bad reviews, I actually went pretty mad, but i don’t remember them at all as they make you feel angry then and there, as soon as you forget them.
Have you ever read some criticism about your work which, in the future, turned out to be useful?
Hmmm, yes, come on. For example, in 2005 I came out with “Hotel”, an album that has had a very good success with a couple of notable radio hits. It was reviewed badly, though. In fact this is the only album that I found myself doing in a recording studio with all the luxuries, with a large production provided by the label. It was totally professional, up to the highest degree. But it was aseptic. Later on, I realized that this was something I did not like at all, I didn’t find myself there, I didn’t appreciated that. Those negative reviews related to that record were the first to warn me, I revalued them.
What can you tell us about your relationship with Italy?
A lot of things. From the very first time I played for you people: a venue for about eight hundred people and something like ten people paying.
Ten?
Yeah,Ten!
And?
And, I made the concert and it was also interesting, come on! Obviously, later on things got better, even if there have never been moments such original like that time when I opened the tour for the Red Hot Chili Peppers and I found myself with Flea climbing on amplifiers, both becoming the perfect target for throwing objects from the audience. However, look, I swear I don’t say this because I’m talking to you right now, but everytime I played in Italy I always enjoyed it, because I love you as a culture, I love you as people, I love the way in which you live music. Italy is a beautiful place.
A beautiful country with a bad politic system, quite a paradox don’t you think?
I don’t live here and I am not in the position to judge your political system but trust me, also the American political system screws up sometimes. Although I must admit that no one like you people is able to add a sort of farcical theatricality: You know, for many Americans of my generation, the introduction to the Italian political system were the services on the porn star who entered into the Parliament. Cicciolina, right? That’s it!
Let’s get back to the music please, before I get sick! How long did it take to you to finish “Innocents”?
Almost a year, when i work on a new album I create a large amount of tracks!
How large?
Thee hundred more or less.
Fuck, it’s huge man!
From these three hundred songs I end up with a list of fifteen tracks that is really worth developing and put in the album. Furthermore, there are many people I have been working with this time: so it’s not just my own work but also other people’s work, each of them got its own way and time. In this album I tried to work with people who really could inspire me, as I’m a great fun of Mark Lanegan since he was a memeber of the Screming Trees, I really wanted him to be on this, also because his voice has become even more unique and intense over the time. Another good partnership was with Wayne Coyne from The Flaming Lips: Wayne and I have known each other for nearly two decades, from that famous tour with the Red Hot Chili Peppers, and when I listened to the samples of “The Perfect Life” I realized how, as for the writing style, it seemed in many ways a song of The Flaming Lips. So I called Wayne, with him, as with Mark and all the other guests, the developing process was always the same: collaboration by distance. I sent them the tracks and they sent them back to me with their vocal part. I worked on the music, they took care of texts and vocals.
Indeed, you look like pretty jealous of your own work: actually it is rare for you to work as a producer.
As for “Innocents”, the good thing is that both me and my friends know that I’m 47 years old man who still loves working on an album rather than single hits, I’m definitely out of time. So, we all knew that we were working together on a project that probably had not and does not have any real chance of commercial success. We didn’t waste our time on things like “Will the radio play it? Will it be a success or not?”. A great relief for me and for them.
Let’s talk again about your work: for you working in partnership with people who take care of the vocal parts it’s ok but what about the production?
Well, I worked on dance tracks with a few djs and recently I’ve been working with The Loops Of Fury… but your question is good. You make me wonder that maybe I should collaborate more with other artists.
Who would you like to work with?
I’m thinking about artists who have made a good work by remixing my songs. I would mention the great Alt-J, David Lynch, who has done a remarkable job putting his own style on my music, or Yeasayer, really fresh.
In spite of many artist, you haven’t create your own label, why?
For the same reason I will not make any concert to promote “innocents” I prefer to stay at home and do more creative things like compose music or dedicate myself to photography or writing… That’s it. I realized that life is too short and I try to spend my time by doing things that I like and that I find creative. Opening a label, with all that bureaucracy… I don’t think it’s a good idea.
What about trying to teach your style to some young fellow? Be like an artistic Godfather, have you ever think about it?
No, no, no, I think I should be learning from them, trust me. My way of working is really old school; I’m old, I really am. I still use the tape machine, can you believe that? I still buy old keyboards on e-Bay.
What the difference between being old fashion and be out of fashion?
I don’t really know, but that’s a really good question. I just make the music that I love, music that gives me emotions. It doesn’t really matter if there’s Ableton or Reason or an acoustic guitar and a microphone in it. It’s more about the emotions that I feel when I listen to it by the first time.
You think you’ll come back to punk one day?
I use to listen to punk rock even now! A couple of years ago I had a reunion with the Vatican Commandoes, one of the punk band I used to play with when I was at the high school. We had a great time! We remembered, more or less, all the tracks! The singer, who was a fool with blue hair, is now a respected neurosurgeon and owner of a private clinic. The bassist, a mad guy, now lives with his wife and children in a farm in New Mexico. It was fun to play again all together and make the cover of Minor Threat or Damned.
Tell me that at least for a moment there came up with “Oh, what are we doing here?…”
No, because we were aware of what we were, just three middle-aged guys. None of us really believed we could turn back time. Nobody. Neither did I.
Traduzione in inglese: Stefano Livio Marzella