E due. Prima Wiley, tornato su album ad Aprile, e ora Dizzee Rascal, che rilascia su Universal il suo quinto lavoro in studio. I due padrini del grime (così dice Wikipedia, non prendetevela con me) al ritorno a stretto giro. Sulla carta ci sarebbe da esultare. Sulla carta. Se i due album nascondessero anche solo in qualche anfratto inconscio la volontà di ribadire la forza del grime vero. Capita invece che siamo alla svendita definitiva verso il sound che scala le classifiche a colpi di dance commerciale e cassa che pompa. E per gli amanti delle radici del genere c’è solo da piangere.
Ora, a me balza davanti agli occhi un’immagine angosciante: un neofita sente parlare di grime, approfondisce e scopre che i due qui sopra ne sono i pesi massimi. Apri nuova finestra e di corsa su Youtube, vediamo qualche loro video e proviamo a capire cosa diavolo è ‘sto grime. Tra i primi video lampeggianti in mezzo ai link sponsorizzati c’è “Reload” (Wiley ft. Chip, terzo singolo estratto dall’ultimo “The Ascent”), e il povero malcapitato in cerca di conoscenza si ritrova a guardare una roba così: Wiley feat Chip – Reload (2013). ‘Ma fatemi capire, metti due giri di rappato su una base-commercialata-EDM-Guetta-Tiësto, con tanto di luci colorate e occhiali da sole tra le mure di un finto-club, e hai fatto grime?’. La risposta sarebbe ‘no, hai fatto schifo’, ma ancora non ci siamo arrivati. Perché poi quel bravo ragazzo (già mi ci sono affezionato) cercherà quel nome con due zeta e la prima cosa che leggerà è ‘Dizzee Rascal – Goin’ Crazy ft. Robbie Williams’. Quello di “Feel”, esatto. Non riuscirà a non cliccare, e si ritroverà di fronte la faccia furbetta di Robbie che gioca con la telecamera e, aspetta un po’, sì, quello che gli gira intorno e sembra dire ‘date qualche attenzione anche a me’ è proprio quello il Dizzee che stavo cercando. Ma in che circo sono finito?
No, ragazzo mio. Ti stanno prendendo per il culo. Quello che hai visto è quanto di più distante possa esserci dallo spirito originale del grime. I due personaggi che hai cercato sono quelli che più di tutti si sono sputtanati la propria dignità, rinnegando le origini e la gloria del loro genere e buttandosi a pesce sulla musica del momento, quell’EDM che ormai identifica i primi anni dieci più o meno come l’eurodance nei ’90 e l’electroclash nei ’00. Il vero grime è tutt’altra cosa: fu la deriva più cattiva, lurida e spietata che venne fuori dall’universo hip-hop nel decennio scorso. Fu il fratello malvagio del dubstep. Per tutti gli anni zero si contesero lo scettro di “chi nacque per primo”, un titolo importante perché parliamo del sound più identificativo di quegli anni. E un vero vincitorie non ci fu, con buona pace di chi tiene per il dubstep e azzardava le origini del proprio genere addirittura a fine ’90 (cazzate: il dubstep viene fuori quando i ragazzi al Forward iniziarono a fare sul serio, cioè intorno al 2002-3, e a quei tempi la Rinse FM ci dava giù di grime già da un po’, anche se lo si chiamava in modo diverso).
Per arrivare al cuore del grime, caro ragazzo, dovrai rivolgerti a chi di quel sound ha sviluppato il suo lato più ortodosso. A chi ne ha coltivato l’attitudine più nera e claustrofobica, e mai ha pensato di voler commercializzare qualcosa che di commercializzabile – detto sinceramente – ha meno di zero. Se andrai più a fondo, magari beccherai gente come Kano o Jammer:
che ok, è finita su MTV, però ci è andata con la faccia sporca e incazzata, la voglia di giocare di rottura, e lo spirito sociopatico del grime lo ha reso per bene. Troverai gentaccia come Youngstar, DJ Wonder, P Money, Skepta, Lethal Bizzle, che han contribuito a rendere quel sound così duro, mascolino e lontano dai comuni canoni di bellezza (che poi è quel che rende davvero bello il grime). E scoprirai che di buon grime se ne produce ancora tutt’oggi. Che alla Rinse continuano ad essere quelli più sul pezzo. Che quella loro compilation “I Love Grime“, uscita l’anno scorso, è la miglior lezione di stile e principi che potrai trovare in circolazione. E che, anche in questa fase storica comunque nuova, ci son personaggi come Royal T e Terror Danjah che sanno ancora conciliare il cuore oscuro del genere con le giovani modernità elettroniche.
Dizzee e Wiley, no. Loro furono quelli che il genere lo sdoganarono agli inizi. Dizzee Rascal con quel “Boy In Da Corner” ci vinse pure il Mercury Prize 2003, mentre Wiley coi suoi primi tre dischi assunse il ruolo di baricentro di riferimento dell’intera scena inglese, almeno per chi lo vedeva dall’esterno. Furono due casi tipici di personaggi che conducono gli eventi storici quasi li portassero per mano personalmente, e qualcuno li inserì entrambi (giustamente) come tappe rilevanti della sua personale storia della musica elettronica. Poi però, si misero in testa di essere qualcos’altro, di voler far parte dell’industria musicale che fa i veri soldi. Ci misero poco a capire che, per farlo, bisognava trasformarsi in qualcosa di completamente diverso. E chissenefrega se poi tutti avrebbero finito per considerarli i più noti traditori del genere.
Wiley sembrò montarsi la testa dopo il successo di “Wearing My Rolex“, nel 2008, e da allora s’è proprio convinto di essere un divo e potersi permettere impunemente qualsiasi cosa, dai video porno ai leak selvaggi, entrando in polemica con chiunque, artisti, label e testate giornalistiche (trovate la lista completa di tutte le sue gradassate recenti in questo simpatico articolo di FactMag). Dizzee sembrò prendersi d’invidia e nel 2009 se ne venne fuori a sorpresa con “Tongue n’Cheek”, disco che annoverava tra i producers nomi come Tiësto, Calvin Harris e Armand Van Helden e che rappresentò il primo avvicinamento del Dizzee sound a meccanismi sonori più mainstream (che valevano ancora botte da orbi come “Bonkers”, ma che erano comunque plateali inseguimenti di un certo tipo di arruffianamento del grande pubblico). Ancora non hanno smesso di prenderlo in giro, Dizzee, quello che proprio nel disco precedente diede vita alla polemica a distanza con Joss Stone, per non aver incluso il suo contributo vocale in “Da Feelin'” perché troppo ‘poppy’. Se è vero che cambiare posizione è sinonimo di intelligenza, tu sei proprio il più genio di tutti.
Quest’anno i due furbetti han tirato fuori due dischi completamente immersi nel più lato becero e sfacciato dell’EDM. E la cosa dà un gran bel fastidio, stavolta più che in altre situazioni simili. Perché di storie di svolte e trasformazioni di interi generi verso un sound più commerciale ne abbiam visto tante e ne abbiam pure parlato, provocatoriamente per la trance, con fare civettuolo per la house, più oggettivamente per il dubstep. Ma in un certo qual modo sia la trance, sia la house, sia il dubstep moderno avevano già in sé dei segni di affinità con la musica dei grandi numeri, per attitudine melodica, facilità di fruizione o aggressività electro, e il salto a una dimensione mainstream è stato qualcosa di naturale, per quanto doloroso possa essere visto. Il grime no, cazzo. Il grime è e resta ancora oggi il sound di chi sputa in faccia agli ascolti del grande pubblico. Il grime è la cattiveria del quartiere che spara il suo disprezzo in fronte alla metropoli organizzata da cui si sente emarginato. Non può in alcun modo convertirsi agli stessi principi che ha sempre combattuto, e infatti chi è passato dall’altra parte ha dovuto rinnegare musicalmente il proprio passato.
Oggi Wiley e Dizzee Rascal non sono soltanto due rappers che han venduto l’anima al diavolo in cambio di fama e successo. Sono il simbolo dell’arrivismo che domina la società moderna, secondo cui qualsiasi cosa può essere sacrificata, se serve a guadagnare punti su quelle scale normalmente usate oggi per misurare il valore di un individuo. Il problema non sta nella musica in sé, ma nell’arco di discesa individuale che ha condotto ad essa, testimonianza di quanto i principi, la coerenza, la fedeltà al proprio pubblico e all’affetto della scena non valgano nulla di fronte alle sirene del mercato. Di musica così possiamo sopportarne ancora tanta, e magari in certi casi battiamo anche il piede, ma di persone così, capaci di svendersi e tradire chi gli ha sempre dato fiducia, vorremmo averne il meno possibile.
E la cosa peggiore è che se gli chiedi perché, loro ti risponderanno candidi qualcosa come “ho voluto mettermi in gioco”, “l’ho fatto per mantenere dinamica la mia musica”, “non volevo far sempre lo stesso disco”, “ho seguito il mio istinto mantenendo la mente aperta” e tutte le solite cazzate prese dal manuale delle frasi fatte che quasi ti fan sembrare un grande artista. Almeno se riesci a mascherare per bene quel risolino sarcastico tipico di chi sa di averti fregato ancora una volta.