Luke Slater non lo scopro certo io, non lo scopriamo certo oggi: è facile che chiunque passi di qui abbia almeno sentito nominare almeno uno dei suoi tanti alias, anche se quelli che usa ancora sono praticamente solo Planetary Assault Systems e L.B. Dub Corp e molti degli altri li ha usati giusto per uno o due EP a metà anni novanta. Già, metà anni novanta: Luke è uno che la techno l’ha vista nascere e crescere, anzi, ha contribuito a farla nascere, crescere ed evolvere in mille direzioni diverse, dimostrando di saper coprire una parte molto ampia dello spettro enorme di possibilità del genere: in poche parole, è uno che in più di vent’anni di carriera le ha fatte quasi tutte.
Ciononostante, basta sentire la furia vorticosa di un qualunque Planetary Assault Systems o l’incedere marziale di uno qualunque dei (troppo pochi) L.B. Dub Corp per riconoscere il suo stile inconfondibile, fatto di suoni duri come il granito e di un’oscurità in cui non c’è sofferenza, non c’è male di vivere come in tanta altra della techno recente, in cui pare ci sia la gara a chi si (e ci) fa più male: non c’è niente di tutto questo in Luke Slater, lui è uno che nel buio ci si trova bene e che è in grado di renderlo piacevole anche per noi.
In tutto questo, “Unknown Origin” non fa eccezione, o forse sì.
La quantità di oscurità è la stessa, e non mi sarei mai aspettato nulla di diverso da Luke Slater, ma c’è qualcosa in più, un’anima diversa che non ti aspetteresti: un Luke Slater un po’ meno quadrato, meno scolpito nella pietra e più morbido, a tratti addirittura suadente e – mi fa quasi strano dirlo – melodico, paradossalmente un Luke Slater meno tedesco del solito e più vicino alle sue reali origini britanniche, sull’etichetta che forse oggi più di tutte incarna l’ideale di “techno tedesca”. Da Luke Slater non mi sarei aspettato i pad viaggioni di “No Trouble In Paradise”, di gran lunga la mia traccia preferita dell’album, o il piano Detroiteggiante di “Generation To Generation”: mi sarei aspettato la rabbia di “Roller” e i noise di “L.Bs Dub”, o anche il dub spezzettato eppure quadrato di “I Have A Dream”, con Benjamin Zephaniah in versione Martin Luther King, a conferma del fatto che stiamo comunque parlando di Luke Slater, ma quando lui dice che per quest’album ha voluto tornare “back to the roots” sembra che abbia voluto tornare indietro alle origini di tutta la techno, alle origini black.
Non ci sono solo i riferimenti evidenti del già citato MLK e di “Nearly Africa”, ma per tutto l’album serpeggia sinuosa un’anima (un po’, non troppo: è comunque Luke Slater su Ostgut, non dimentichiamocelo) più umana e meno macchina, più vicina all’High Tech Soul che rappresentava l’idea di techno ai suoi inizi. E’ techno “classica” quindi, se esiste qualcosa come la techno “classica”, ma non per questo suona vecchia né retrò, tutt’altro: “No Trouble In Paradise” è una di quelle tracce, ne sono sicuro, che risentita tra tre-cinque-dieci anni farà sempre la sua porchissima figura. Non è una cosa enormemente intellettuale, ok: è un pad da “mani al cielo” su una struttura intenzionalmente scarna, ma non è detto che sia un male, perchè a far sembrare le cose così semplici ci vuole un’abilità fuori dal comune, e Luke quest’abilità ce l’ha sempre avuta, di rappresentare emozioni semplici, quasi primordiali, in maniera diretta e immediata, sia quando si parla della rabbia di Planetary Assault Systems che, in questo caso, quando si parla di sensazioni un po’ più positive.
Sembra facile, togliere il superfluo e lasciare l’essenziale a comunicare le emozioni. Sembra.