Immaginate di ritrovarvi in una stanza buia, impotenti e senza punti di riferimento. Uno stato d’angoscia “infernale”, sicuramente non piacevole. Il vostro primo pensiero è quello di scappare per ritrovare una via d’uscita, una luce, tanto preziosa per rassicurarvi e ristabilire una tranquillità interiore. Il messaggio subliminale del nuovo album di Avatism su Vakant sembra essere proprio questo. “Adamant” indica limpidamente la scappatoia per allontanare paure e ossessioni, mettendo in mostra tutte le migliori caratteristiche del più prezioso tra i diamanti.
Partiamo però dal principio, spendendo qualche doverosa parola su Avatism. Non è un segreto, anche se per molti potrebbe ancora sembrarlo, ma in Thomas Feriero scorre sangue italiano, milanese per la precisione. Si tratta però soltanto di un dato anagrafico, visto che la crescita professionale è avvenuta in terra straniera, tra Miami e Londra per studiare al SAE e poi temporaneamente a Berlino. Scelta coraggiosa che alla lunga si è rivelata fondamentale per la crescita in termini di popolarità; a parlare per lui sono i lavori in crescendo su Luna Records, Dumb Unit e Souvenir prima dell’approdo nel 2012 su Vakant. Grazie alla cieca fiducia e all’ottimo rapporto instaurato con Jeremy P. Caulfield (boss di Dumb Unit e punta di diamante di Vakant) è quindi arrivato a concretizzare il suo progetto più atteso: un album. Su di esso, Thomas ha voluto svelare un particolare aneddoto. Ogni traccia dell’album è stata scritta in un solo giorno (badate bene, intendo “scritta”, poi i tempi per il mixing, arrangiamento e produzione sono stati altri) a dimostrazione del fatto che l’ispirazione è stata sfruttata al massimo in ogni singola sessione in studio. Sessioni intense alle quali hanno preso parte amici e conterranei illustri come Clockwork, Mind Against, Forrest e Federico Rizzo, ognuno a suo modo importante per garantire una sfaccettatura diversa all’insieme. All’interno non è difficile scovare elementi dubstep (“Behind The Hourglass”) e paradigmi house (“Mastodon”) che assemblati plasmano un blocco intero e pulito, quasi come accadeva nel paragone dantesco alla luna in uno dei suoi versi nel “Paradiso” (“lucida, spessa, solida e pulita, quasi adamante che lo sol ferisse”). Chissà, magari Thomas in qualche modo ha voluto rievocare proprio questo aspetto…
Quel che comunque resta certo è che si tratta di un vero e proprio viaggio emozionale in perfetto stile Vakant, nel quale si prende per mano l’ascoltatore e si cerca di rapirlo di testa, prima che con il corpo, sciogliendo le catene immaginarie di malinconia e incertezza rispecchiabili sullo sfondo sonoro di “Curtains” o anche dagli stessi titoli “Not Everything Is Lost” o “Laments”. Il ricorso a sintetizzatori analogici rappresenta certamente l’angolo più in risalto del diamante, un filo conduttore che lega la prima traccia “Adamant” all’ultima “I Never thought I’d Find Myself Here” mentre altri spigoli splendono decisamente meno in termini di contenuto: “Ghost Coil”,”Blackened” e soprattutto “Bitter Reminiscence” riportano in auge tremendamente il conclamato credo minimalista della label berlinese e dei suoi esponenti, Tolga Fidan su tutti. Il livello di interesse e attenzione rimane comunque piuttosto alto per l’intera durata dell’album, tra multiple esperienze sensoriali finalizzate all’abbattimento della monotonia, del buio e dell’oscurità (avete fatto caso anche all’artwork?). Le componenti vocali ci sono e contribuiscono a rafforzare la tesi appena esposta, sentire per credere “Different Spaces”, partorita a quattro mani con Forrest. Dopo questi doverosi accorgimenti non rimane che lasciarsi trasportare da ogni singola nota, facendo però attenzione a rimanere lucidi, senza accecarsi e ripiombare lì nel buio, dove tutto è iniziato.