Rolling Stone Italia festeggia dieci anni: niente di strano, fin qui tutto bene, anzi – auguri. Tra le tante operazioni di comunicazione viene però pubblicato questo video, per la regia di Federico Brugia:
Iniziamo a storcere il naso, ne discutiamo internamente, ci chiediamo se sia il caso di fare il punto su una situazione non del tutto secondaria: una delle testate musicali più importanti d’Italia fa il verso al nostro mondo, e lo fa in un modo piuttosto fastidiosamente banale e stereotipato. “No, non ha senso”, è la nostra conclusione. Tanto più se pensiamo che la testata in questione è stata o è tutt’ora partner ufficiale di alcuni dei più importanti festival di musica elettronica in Italia.
Era molto meglio un vecchio video che avevano pubblicato, prodotto sempre dagli stessi creativi (D’Adda, Lorenzini, Vigorelli e BBDO), dove ci si poneva una domanda a nostro modo di vedere un po’ più sensata e pensata – che fine hanno fatto le rockstar.
E allora, che dire? Dobbiamo davvero metterci a sindacare su quel video? Dobbiamo offenderci, come stanno facendo molte persone in giro, tra cui alcuni siti internazionali? Gridare al complotto, all’ingiuria? No. Ci sono modi molto più sensati di reagire. Ad esempio, decidere di parlarne col vicedirettore del giornale, Fabio De Luca, tra le altre cose un grande e storico esperto di musica elettronica, come gli facciamo notare durante la nostra chiacchierata. Immaginiamo si sia potuto esporre fino ad un certo punto, non di meno troviamo parecchio interessanti le sue parole: molto meglio leggere quelle, che abbandonarsi unicamente alla (solita) serie di lamenti “Il mondo non ci capisce, il mondo ci odia, tutti stronzi, tutti incompetenti”.
Poi, una volta lette, starà a voi decidere quanto e fino a che punto, citando Fabio, il tutto fosse una “provocazione”…
Andando subito al punto: com’è possibile che una redazione così attenta e qualificata in campo musicale, come quella di Rolling Stone Italia, possa avvallare un video con queste posizioni così – se mi posso permettere – manichee? Quelle secondo cui la musica si divide in “vera” (quella con basso, chitarra, batteria…) e “non vera”.
Lo so, è terribile giocarsi subito, alla prima domanda, l’arma finale del “era una provocazione!”… ma, ehm, era una provocazione! Per meglio dire: era da un lato una semplificazione estrema (per finalità chiamiamole “comunicative”) di un messaggio molto più complesso, dall’altro il flirtare con un cliché portandolo al suo estremo: “Ciò che ci si aspetta una bibbia del R&R dica in materia di dj e musica elettronica”… Da questo punto di vista, se vuoi, lo spot di tre anni fa era persino più tagliato con l’accetta: puro Jack Folla, quasi pre-grillino… La divisione “musica vera”/“musica non vera” è chiaramente grottesca, e non da oggi (al punto che mi stupisco sia ancora così sentita). I was there, come lettore, quando la pagina delle lettere di “Rockerilla” si riempì di lettere inferocite a causa della recensione del primo disco dei Public Enemy (“Non è vera musica!”), quando far passare l’idea che un tizio con un campionatore potesse essere altrettanto “sincero” come un cantautore con la chitarra era una posizione da trincea… Capisco perfettamente il fastidio per il messaggio troppo semplice/rudimentale, solo mi stupisce che in tanti si siano sentiti tirati in ballo: “dj” vuol dire un bel po’ di cose differenti, c’è John Talabot, c’è “Dj Ciuffo”, c’è Bob Sinclar…
Tra l’altro proprio tu per anni ti sei occupato soprattutto di musica, ehm, “non vera” – penso a Weekendance su Radio Rai, ai tuoi spazi fissi su Rumore, al bel libro scritto assieme a Carlo Antonelli “Disco Inferno”… Credo non ti siano mancate le accuse di dedicare troppa attenzione a musica chiamiamola di Serie B. Giusto? Se sì, come rispondevi di solito?
Con “Disco Inferno” il gioco era di provare a dare dignità all’indifendibile. O a quello che allora – in anni pre-“Anima mia”, con Tommaso Labranca e Aldo Nove che stavano muovendo i primi passi – era l’indifendibile: Sandy Marton, Claudio Cecchetto, “la discoteca” post-Febbre del sabato sera come luogo archetipo di sconfitta della sinistra italiana, le mamme anti-disco anni ’90… In realtà non era nemmeno un dare dignità, ma provare a inquadrare tutti quei fenomeni (e altri più “difendibili”: i rave, la house music, il Cosmic) in un flusso di tempo e un ambito geografico che aveva inizio con l’Italia del dopoguerra. Su “Rumore” invece la seconda metà dei ’90 fu una stagione fantastica nella quale occuparsi di musica elettronica: era il momento in cui d’improvviso anche il consumatore indie medio aveva trovato una “sua” via alla discoteca grazie ai Chemical Brothers, Underworld, Fatboy Slim… Artisti che erano arrivati all’acid house partendo a loro volta dal rock o dall’indie, e che in qualche modo permettevano all’ascoltatore di ripercorrere quel loro stesso passaggio.
E comunque: quale curiosa spinta autolesionista porta allora Rolling Stone ad essere stato, per dire, storico partner di Dissonanze (dove la musica “non vera” era il 98% del cartellone) e ad aver seguito ora con attenzione Club to Club?
Ma non solo! negli anni “RS” ha dato spazio editoriale (cito a memoria le prime feature “lunghe” – cioé non mezza paginetta e via – che mi vengono in mente) a Crookers, Bloody Beetroots, Salem, Caribou… Ovviamente Chemical Brothers e Fatboy Slim, anche se colti nel periodo del loro declino. E poi grandi vecchi della musica elettronica come Cosey Fanni Tutti dei Throbbing Gristle, o un leggendario dj della New York anni ’70 come David Mancuso. È un paradosso, lo so: la semplificazione del messaggio dello spot rischia di farci passare per più retrivi di quello che siamo… È un po’ quello che successe nel dicembre 2009 con la copertina (“provocatoria” pure quella…) a Silvio Berlusconi.
In generale, dal tuo punto di vista ha senso oggi immaginare ancora una profonda divisione e soprattutto una contrapposizione tra universo rock e universo elettronico, al di là delle discussioni su cosa sia più o meno “vero” e valido? Ci sono ancora delle differenze di base irriducibili?
Ma assolutamente no! È ovvio che ci sono e ci saranno sempre delle differenze e delle specificità – che è anche bene che ci siano, e vanno anzi valorizzate – ma dal punto di vista della coesistenza dovremmo ormai essere arrivati a quello che in sociologia si definisce “race blindness”: il “non fare più caso” alle differenze in quanto tali, in senso divisivo. Poi, ovvio, finché esisterà Facebook ci sarà sempre un batterista precisino per il quale i dj non devono usare la parola “suonare”, perché “mettere in fila dei cd non è suonare” (e ci sarà sempre uno style magazine R&R che cavalcherà la polemica). Del resto, se ci è arrivato (pochi mesi fa) anche Topolino…
Ti viene in mente qualche esempio per te particolarmente convincente di contaminazione tra estetica/attitudine rock ed estetica/attitudine elettronica?
Moltissimi, in realtà. Limitandomi al gusto personale: Andrew Weatherall in tutto ciò che ha fatto nella sua esistenza (per il suo lato rockabilly si veda Sci-Fi-Lo-Fi vol.1), ovviamente i Soulwax, ovviamente James Murphy, gli LCD Soundsystem e il loro approccio 50% enciclopedico 50% “di pancia” alla materia, e in generale la visione del mondo dell’etichetta DFA (come da recente documentario per Red Bull). Poi bisognerebbe, forse, definire “attitudine rock”: se lo si intende in senso progressista gli esempi qui sopra rendono l’idea; se lo si intende con l’accezione regressiva School of Rock di debauchery esistenziale, ampli a +11 etc., probabilmente vale anche il nome di Steve Aoki. E lo dico senza il minimo intento polemico, eh.
Cosa, a tuo modo di vedere, deve imparare la scena rock da quella elettronica, e cosa invece quella elettronica da quella rock?
Mi viene in mente quello che dice – di nuovo – James Murphy in una delle interviste nel film/documentario sui Soulwax/2Many DJs “Part of the Weekend Never Dies”. «Ogni dj, prima di poter girare il mondo come dj, dovrebbe essere obbligato ad andare in tour per un anno con una band punk»… Forse però dovrebbe valere anche il contrario, chissà…
Secco: la tua top 5 all time di dischi di musica puramente elettronica. Promettiamo che non diciamo nulla al resto della redazione del giornale. Ci limitiamo a pubblicarla qua su Soundwall…
Cabaret Voltaire, “The Voice of America” (Rough Trade, 1980)
Manuel Göttsching: “E2-E4” (Inteam GmbH, 1984)
Silicon Teens, “Music for Parties” (Mute, 1980)
Goldie, “Timeless” (FFRR, 1995)
The League Unlimited Orchestra (aka Human League), “Love and Dancing” (Virgin, 1982)