Ok, mettiamo da parte gli scherzi. Il nostro bilancio “serio” di fine anno ve lo dovevamo, e faremo fin da subito una considerazione sincera: non ce la sentiamo di definire il 2013 un’annata particolarmente esaltante per la musica che ci unisce. E non perché non c’è stato nulla di cui gioire (anzi), ma perché abbiam riflettuto bene su COSA ci ha fatto gioire, cosa ha segnato maggiormente gli ultimi dodici mesi. E ci siamo accorti di una cosa: i momenti più eccitanti quest’anno son corrisposti perlopiù coi ritorni di alcuni mostri sacri (Daft Punk, Autechre, Boards Of Canada, ma anche David Bowie o My Bloody Valentine) e con le conferme di coloro che già popolavano le nostre liste di preferiti degli anni passati (James Blake, Machinedrum, Zomby, Janelle Monáe, il gettonatissimo Kanye West). Il che, per la nostra musica e per la voglia intrinseca di nuovi suoni e intuizioni che ci accomuna, non è il massimo. Eppure è così, e per averne una conferma basta scorrere le classifiche che stan facendo il giro del web in questi giorni. Ditecelo voi, quanti nomi non erano già nelle stesse chart di due o tre anni fa.
Insomma, non è stato di sicuro un anno che si è distinto per il fiorire di nomi nuovi o per la nascita di scene e nicchie specifiche. Le stesse lineup di festival nostrani come il roBOt o l’Alfa Romeo Mito Club To Club questo conservatorismo diffuso l’hanno evidenziato già nelle scelte di programma, e l’unico strappo a questa regola è stata la deriva oscura che ruota intorno alla Tri Angle (che nuova non è). Quel che è mancato è stato un fermento diffuso che muovesse a effetto domino la passione di producers e appassionati, una constatazione che finisce per metterci la nostalgia persino per un anno come il 2011, che dalla sua aveva comunque i fermenti post-dubstep, le direzioni emozionali e le iniziative dei vari singoli. Da questo punto di vista, ecco, quello in chiusura è stato un anno fondamentalmente di stasi, di passaggio.
http://youtu.be/7Sge2h7HfIA
Certo, di argomenti caldi che ci han coinvolto e han movimentato le nostre giornate ce ne son stati. C’è stata la trap, ad esempio, che non è proprio una novità del 2013 ma che quest’anno ha avuto un vistoso balzo d’immagine, diventando comunque qualcosa di caratterizzante, argomento da condividere e passione da sviluppare per una nutrita categoria di giovani producers. Un genere che sta procedendo con la sua inerzia verso le sue note direzioni, che ha visto gli artisti sfidarsi su cose più intelligenti e argomenti meno virtuosi e che, come accade normalmente, è sfociato anche nei nomi dai grandi numeri, dalla Rihanna di “Pour it up” alla M.I.A. di “Double Bubble Trouble”. Non lo si può certo definire il trend che ha catturato l’attenzione e il coinvolgimento di tutti, ma i suoi bei risultati li ha ottenuti, soprattutto tra chi è stato in grado di pensare oltre le classi di appartenenza, uscendo fuori dalle gabbie di genere. Thumbs up dunque per Major Lazer o Eprom, con due dischi che spiazzano e pongono gustosi punti di vista alternativi sulla questione, ma anche per il nostro ottimo Aquadrop che sa sempre come farsi apprezzare, qualsiasi sia lo stile da lui scelto.
Altre importanti novità quest’anno le ha portate, a sorpresa, l’r&b. Dopo l’ultima ondata di coinvolgimento collettivo avuta l’anno scorso in ambito hip-hop, coi vari Frank Ocean, Kendrick Lamar e dintorni, le cose da quelle parti si son sgonfiate abbastanza presto, e invece è stata la sorella raffinata che quest’anno s’è fatta notare di più. Prima a inizio anno, con quella apparente unione di intenti che sembrava accomunare i dischi di Jamie Lidell, Autre Ne Veut e Justin “proprio lui” Timberlake e che vi avevamo fatto notare nelle sedi opportune, col loro piglio frizzante e le loro interazioni spigliate con le dinamiche pop. E poi dopo l’estate, con il colpaccio di Jessy Lanza su Hyperdub (non chiedeteci com’è che Rashad è nelle classifiche di mezzo mondo e lei no): un piccolo capolavoro di sensazioni e coolness d’estrazione raffinata, eppure dotata di un appeal che in pochi hanno avuto quest’anno.
Chi invece ne esce ancora come una grande conferma è la house, in un visibile stato di forma che la rende ancora l’ambiente più efficace per sviluppare una dance appetibile a tutti. È l’anno dei Disclosure, ovvio, forse il nome che più di tutti ha messo d’accordo pubblico colto e opportunisti dance, con una formula di impatto eppure anche di qualità. Accanto a loro due co-protagonisti di livello come Maya Jane Coles e Deetron, poi uno stuolo di attori di supporto che han dato tante belle soddisfazioni, dal Lusine di “The Waiting Room” al Tom Trago di “The Light Fantastic” allo Ian Pooley di “What I Do”. Il fatto è che alla house proprio piace godere del tempo in cui vive, e sa come portare a proprio vantaggio questa generale tendenza all’esplicito e alla popolarità di oggi, diventando così, a suo modo, un esempio di stile, capace di non svendersi e di mantenere alta la propria dignità pur arrivando sui canali di distribuzione di massa. Chi pensa che questo sia un male, sbaglia: o così, o li fuori regnerà solo il tamarro-iperaccessoriato-pompato-electro. Teniamocele strette anche l’anno prossimo, queste soddisfazioni.
Diversa invece la situazione in ambito techno. Ferma non è, ovvio, ma un po’ chiusa in sé stessa sì, in una parentesi riflessiva, in attesa che arrivi lo spunto giusto con cui uscire nuovamente dal proprio guscio e mostrarsi nuovamente fiera di sé. Dettmann e la Ostgut Ton son stati quelli che ci han fatto saltare gli occhi la frustrazione, l’assenza di un profilo di alta risonanza da mostrare oggi. Altri invece (da label come Blackest Ever Black e Raster Norton a scendere) ci han mostrato un lato oscuro, industriale e noisey che in ambito techno non rappresenta una novità, ma che appare ancora popolata da gente con la voglia di andare a fondo. Ci teniamo ovviamente il suo irriducibile lato clubbing e confidiamo in un ritorno in grande spolvero, come si confà a un genere di assoluta autorevolezza come la techno. Nel frattempo, anche qui, godiamo di chi riesce a uscire dalle traiettorie note e insiste nel voler uno spunto personale, identificativo dei propri dischi. Gente come Stellar Om Source, Kyle Hall o Gesaffelstein, per intenderci, a loro modo esponenti della resistenza: resistenza all’omologazione, che poi è quel che da questo genere abbiam sempre voluto tutti.
Il vero lato dolente, però, è che niente di tutto ciò ha lasciato un segno permanente nell’evoluzione musicale di questo decennio. E se proprio vogliamo identificare il sound che più di tutti caratterizza l’oggi, quello che tra cinque anni ci farà tornare in mente questo periodo, ahimé, ci tocca riconoscere che quel sound è proprio la famigerata EDM: una macchina in costante accelerazione, che quest’anno ha definitivamente monopolizzato l’immaginario elettronico popolare, con annesso il naturale odio dei sofisti e la solita selva di speculazioni giornalistiche sull’elettronica che “è tornata ad essere pop”. In effetti trattasi ancora dei corsi e ricorsi storici che sappiam bene. Nei ’90 ascoltavamo La Bouche, nei 2000 Benny Benassi e oggi Guetta e soci, non c’è alcuna differenza. Ci si può indignare da tanti punti di vista, tutti comprensibili, ma i pezzi davvero caratterizzanti dei nostri giorni restano quelli dei personaggi più rodati: “This Is What It Feels Like”, “I Could Be The One”, “Clarity”. Una potenza di fuoco contro cui non puoi far nulla, se non aspettare che anche da quelle parti cambi il vento. E non è detto che cambi in meglio.
Escludendo dalle valutazioni generali le performance dei singoli (che per costruzione fanno discorso a sé, e meno male che ci sono le gioie di Jon Hopkins, AlunaGeorge, Forest Swords, Falty DL o James Holden) e le presenze non pervenute (tipo un dubstep ormai sepolto, nemmeno la deriva bro- è servita a granché) cosa vogliamo dunque dal 2014? Forse la ripresa di un senso di partecipazione un po’ perduto, senza il quale ognuno sembra andare per la propria strada come se non ascoltasse nessun altro: una generazione di solisti orgogliosamente fuori da ogni logica di appartenenza. Qualcosa che si spiega anche con l’enorme ventaglio sonoro disponibile nell’era web, dove non esiste un ordine definito, dove ogni cosa vien fuori senza distinzione di intensità, dal rap di Mtv all’ultima micronicchia soviet bass, e dove ognuno si sente spinto a gettarsi nella mischia, aumentando l’entropia. Quel che serve è un’ondata di vitalità collettiva legata ad un’intuizione in cui ci si possa riconoscere tutti insieme. Giusto per evitare che anche l’anno prossimo la sintesi di quanto di buono sia venuto in ambito elettronico non si riduca a tre pezzi dei Disclosure più i soliti nomi noti riassunti da Pitchfork. I tempi però son maturi per un cambio di marcia e confidiamo di non dover attendere ancora molto. Abbiam già gli occhi bene aperti per l’anno in arrivo e presto vi diremo dove è il caso di puntarli: ci terremo aggiornati.